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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2015 alle ore 14:55.
L'ultima modifica è del 25 aprile 2015 alle ore 15:02.

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Nelle società energetiche e persino nei ministeri era opinione diffusa che si trattasse solo di una voce, molto probabilmente infondata. Invece è vero e ha già il sigillo dell’ufficialità: l’Italia si ritira dal Trattato della Carta dell’energia.

La decisione - che ha indotto a temere una minore tutela degli investimenti stranieri in Italia e italiani all’estero - è sancita dalla legge: la Legge di stabilità, pubblicata in Gazzetta Ufficiale col numero 190/2014, e salvo ripensamenti avrà effetto a partire da gennaio 2016.

Pubblicamente non ne aveva parlato nessuno, almeno finché il tam tam degli addetti ai lavori non ha fatto emergere la notizia. Nessun segreto, assicura il ministero dello Sviluppo economico, interpellato dal Sole 24 Ore: si è trattato solo di uno dei tanti sacrifici imposti dalla spending review. «A tutti i ministeri si è chiesto di individuare i possibili tagli - spiegano da Via Veneto - Anche al ministero degli Affari esteri hanno dovuto fare delle scelte e, dopo averci consultato, hanno concluso che la rinuncia all’Energy Charter Treaty non avrebbe provocato sconquassi. Del resto non è certo l’unico strumento di tutela per gli investitori: c’è anche l’Organizzazione mondiale per il commercio, i numerosi accordi bilaterali firmati dall’Italia e le clausole inserite nei contratti privati. E poi l’Italia è membro dell’Unione europea, che resta all’interno del Trattato».

La Commissione Ue è al corrente di tutto, sottolinea il Mise: «L’abbiamo informata in via preventiva e ci hanno confermato che il nostro recesso era possibile».

Tutto è comunque avvenuto senza fanfare e per mesi i media non hanno registrato l’evento. Del resto la rinuncia al Trattato era sepolta in mezzo a una miriade di provvedimenti di ogni genere, volti a recuperare denaro per le casse dello Stato: precisamente al comma 318 dell’articolo 1, che prevede di «rinegoziare i termini» dei contributi da versare a una serie di organismi internazionali. Sotto la scure sono caduti anche una parte dei finanziamenti all’Onu e all’Osce, mentre in altri casi Roma ha scelto di recedere tout court, con un risparmio complessivo di circa 25,2 milioni di euro nel 2015 e quasi 8.500 dal 2016 in avanti.

L’addio all’Energy Charter ci farà risparmiare al massimo 450mila euro l’anno, di fatto 370mila dice il Mise, spiegando che però era in discussione un aumenti delle quote, già penalizzanti per l’Italia in quanto calcolate in proporzione al peso nell’Onu. Il gioco a quanto pare non valeva la candela. Anche perché «l’interesse per l’Energy Charter era scemato, visto che non si era riusciti a portarci dentro la Russia», uno degli obiettivi principali che negli anni ’90 ispirarono l’accordo: alla caduta del Muro di Berlino, si voleva creare un quadro di tutele giuridiche valido anche nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, che coprisse tutto ciò che riguarda l’energia. Il focus era soprattutto sulla tutela degli investimenti, con la previsione del ricorso ad arbitrati internazionali, e sui transiti di petrolio e di gas.

Mosca, dopo aver partecipato a lungo come osservatore, uscì sbattendo la porta nel 2009 in seguito alla seconda crisi del gas in Ucraina. L’Italia è il primo, tra i 52 Paesi membri, ad abbandonare: forse - suggerisce un esperto che ha lavorato alla costituzione degli accordi - anche per il disaccordo politico nei confronti di un organismo che col tempo è diventato sempre più anti-russo.

Al segretariato generale dell’Energy Charter a Bruxelles sperano ancora in un ripensamento di Roma:  «È proprio per favorirlo che il recesso diventa valido a un anno dalla notifica - spiega per telefono un dirigente - Il Trattato offre una protezione più ampia di quella garantita solo da accordi bilaterali o da organismi come il Wto. È vero che l’Italia il prossimo 20 maggio firmerà il nuovo International Energy Charter, ma quello non è un accordo vincolante».

Qualche perplessità sull’uscita dal Trattato è avanzata anche da Lorenzo Parola, partner dello studio legale Paul Hastings. «A un primo impatto la decisione dell’Italia rischia di essere letta come un segnale negativo per gli investitori stranieri», afferma l’avvocato, che assiste diverse società del fotovoltaico nei ricorsi contro la riduzione degli incentivi, ricorsi che in Italia e Spagna spesso hanno fatto leva proprio sulle garanzie offerte dalla Carta dell’Energia. «Ritengo comunque che non si debbano creare allarmismi - prosegue Parola - Il Trattato contiene infatti una cosiddetta “sunset clause”, che protegge per altri venti anni gli investimenti già esistenti alla data dell’uscita dal trattato», compresi dunque quelli effettuati quest’anno, visto che l’uscita sarà nel gennaio 2016. «Inoltre l’Italia ha firmato oltre un centinaio ditrattati bilaterali di investimento, che fornirebbero comunque copertura agli investimenti stranieri».

Le modalità di uscita dall’Energy Charter Treaty sollevano comunque critiche. «La mancanza di un serio dibattito circa le conseguenze e l’opportunità della scelta - osserva Parola - lasciano molto perplessi e impongono attenzione. Soprattutto se trovasse conferma l’indiscrezione secondo cui l’Italia intenderebbe uscire anche da alcuni trattati bilaterali. Non è interesse del nostro Paese e dell’Europa creare incertezze circa il futuro delle tutele offerte agli investitori stranieri».

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