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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2015 alle ore 07:18.
L'ultima modifica è del 06 maggio 2015 alle ore 07:34.

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Lo spettacolare recupero messo a segno dal petrolio nelle ultime settimane - con il Wti che proprio ieri ha riguadagnato la soglia dei 60 dollari al barile - ha offerto un insperato salvagente ai produttori di shale oil americani, che proprio durante il mese di aprile stavano rinegoziando le linee di credito con le banche. Anche il tracollo delle obbligazioni spazzatura, una delle maggiori fonti di finanziamento per queste società, si è interrotto: negli Usa il comparto ha reso il 3,8% da inizio anno in termini di total return, secondo Bank of America Merrill Lynch - meglio della borsa e di qualsiasi altro investimento - e ci sono state numerose nuove emissioni da parte di società energetiche.

Il settore - tra i principali responsabili dell’eccesso di petrolio sul mercato - sta tuttavia cominciando a perdere almeno in parte la fiducia del settore creditizio, stando ai risultati del sondaggio trimestrale della Federal Reserve sui prestiti bancari, e anche dalla comunità degli hedge funds si stanno levando voci fortemente critiche.

L’investitore attivista Carl Icahn qualche giorno fa ha messo in guardia proprio dai junk bonds, «addirittura più pericolosi di come sia oggi il mercato azionario», mentre un attacco violentissimo, diretto specificamente alle società del fracking è arrivato da David Einhorn, di Greenlight Capital, asset manager noto per la sua veemenza e (qualche volta) per la sua preveggenza: nel maggio 2008 era stato il primo a evidenziare le criticità di Lehman Brothers, invitando a vendere le sue azioni. «Queste società si fondano su un’economia di sviluppo negativo - ha avvertito durante la Ira Sohn Conference a New York - A parte pochi giacimenti di qualità, non offrono un ritorno positivo sul capitale investito, ma hanno un’offerta quasi infinita di opportunità di ritorni negativi».

Einhorn non parlava di piccoli frackers improvvisati, ma di 16 tra le maggiori società quotate attive dello shale oil, verso le quali gli investitori hanno di solito un occhio di riguarda: «L’anno scorso, con il petrolio a 100 dollari il gruppo ha bruciato 20 miliardi», ha ricordato. L’obiettivo principale della sua tirata retorica è stata Pioneer Natural Resources, che con un gioco di parole ai limiti della scurrilità ha soprannominato “MotherFracker” (aggiungendo che Eog Resources, più grande, è probabilmente il “Father-Fracker”). Gli altri nomi citati sono Concho Resources, Continental Resources e Whiting Petroleum.

Secondo i calcoli di Greenlight Capital, Pioneer perde 12 $ per ogni barile di idrocarburi che produce e il suo attuale valore di impresa è irragionevole. «Perché il mercato paga 27 miliardi di dollari per questa società? - si chiede Einhorn - Un’impresa che brucia contante e non cresce non vale nulla».

La reazione di borsa è stata inizialmente ribassista, per Pioneer e per le altre società del comparto. Ma l’effetto delle parole di Einhorn - che molti altri investitori hanno giudicato troppo pessimista - si è ridimensionato in fretta.

Scarsa attenzione, in questo periodo di ottimismo nei confronti del petrolio, ha sollevato anche il sondaggio realizzato in aprile dalla Fed tra 99 banche con sede negli Usa. Delle 51 che hanno concesso prestiti al settore Oil & Gas, il 58,8% ritiene che la qualità dei crediti si deteriorerà «abbastanza» e ha intrapreso azioni per mitigare il rischio di un aumento delle sofferenze, come restringere la concessione di nuove linee di credito, irrigidire le condizioni dei finanziamenti esistenti o richiedere garanzie aggiuntive. L’esposizione non è comunque allarmante: i crediti a questo settore rappresentano meno del 10% del totale per l’82,4% delle banche e tra il 10 e il 20% per il 13,7%. Solo per il 3,9% degli istituti questi crediti sono tra il 20 e il 30% e nessuno ha un’esposizione superiore.

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