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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2015 alle ore 19:46.
L'ultima modifica è del 05 maggio 2015 alle ore 21:29.
L’ultimo commento dei sauditi può far sorridere: «Nessuno può stabilire il prezzo del petrolio, è un compito che spetta ad Allah», ha dichiarato il ministro Ali Al Naimi, forse per levarsi di torno le telecamere della Cnbc. Ma la razionalità umana sembra davvero aver poco a che fare con il recente comportamento dei mercati: il prezzo del barile - che in sei mesi era più che dimezzato - ora non smette di correre.
Il Wti, che solo a metà marzo era sceso a 42,03 dollari, il minimo dal 2009, ha già riguadagnato la soglia dei 60 dollari, che non vedeva dallo scorso dicembre, spingendosi fino a 61,10 $barile, in rialzo di oltre il 3%, mentre il Brent - che era precipitato fino a 45,19 $ in gennaio - ha aggiornato il record dell’anno a 68,40 $.
L’input per l’ennesima accelerazione è arrivato proprio dai sauditi, non con il richiamo alla volontà divina, ma con il più prosaico aggiornamento dei listini prezzi della Saudi Aramco per giugno: gli Official Selling Prices (Osp), che da qualche tempo gli investitori osservano con attenzione, sono stati alzati per i clienti in Nord America ed Europa e mantenuti stabili per quelli asiatici, ritocchi che vengono interpretati come una risposta al miglioramento della domanda. Segnale rialzista dunque, per un mercato che ormai sembra voler accogliere soltanto questo tipo di sollecitazioni. Ieri poi di segnali rialzisti ne è arrivato anche un altro: in Libia è stato chiuso a causa di disordini il porto di Zuetina, scalo importante per il greggio, che costringerà a rallentare ulteriormente la produzione dei giacimenti, già ridiscesa sotto 500mila barili al giorno, circa un terzo della capacità produttiva, mai più eguagliata, dell’era Gheddafi.
In apparenza gli investitori hanno voltato le spalle all’eccesso di petrolio - probabilmente superiore a 2 milioni di barili al giorno - che tuttora grava sul mercato, colmando i serbatoi di stoccaggio a livelli quasi insostenibili negli Stati Uniti.
L’entusiasmo per un accenno di risveglio dei consumi e per i primi, deboli segnali di frenata dello shale oil americano è stato però così grande - e ha avuto un tale effetto rialzista sul prezzo del barile - che potrebbe finire col provocare un nuovo scivolone dei prezzi. Parecchi analisti stanno suonando l’allarme sulla possibilità che si stia preparando il cosiddetto “double dip”. «È giustificata una ripresa così forte dei prezzi? Ben poco - scrive Bank of America Merrill Lynch - Il rally sta mascherando un debole equilibrio dei fondamentali». «Non è cambiato molto sul mercato petrolifero», fa eco Energy Aspects, mentre il broker londinese Pvm punta il dito proprio sugli sviluppi delle ultime settimane: «Il rally dai minimi è impressionante, ma contiene i semi della sua distruzione perché potenzialmente stimola di nuovo l’offerta e scoraggia la domanda».
Negli Usa, dove in 7 mesi sono state fermate circa il 60% delle trivelle, molti produttori di shale oil stanno già pensando di riavviare gli impianti: Eog Resources, uno dei maggiori, ha anticipato che perforerà centinaia di pozzi in Nord Dakota e Texas nella seconda metà dell’anno se il barile si stabilizzerà intorno a 65 $, Whiting Petroleum aggiungerà nuove trivelle se si arriva a 70 $.
Molte di queste società, sull’orlo del collasso per i debiti, hanno ricevuto nuovo ossigeno dai creditori proprio grazie al recupero dei prezzi del greggio. Inoltre, il rally ha offerto l’opportunità di estendere la durata dei programmi di hedging in alcuni casi fino al 2017. Le operazioni, che mediante derivati tutelano dal rischio di caduta dei prezzi, fino a poco tempo fa offrivano un paracadute al massimo fino al 2016 e per il 2015 gli analisti stimavano che la copertura fosse dimezzata rispetto al 2014.
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