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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2015 alle ore 08:13.

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Per il momento, nei conti del primo trimestre diffusi in settimana, le principali banche italiane hanno messo da parte 197 milioni. Ma è solo una piccola fetta di quanto verrà chiesto dal prossimo anno agli istituti italiani, grandi e piccoli, per finanziare i nuovi fondi salva-banche: un miliardo, da versare ogni anno dal 2016 al 2024, secondo le stime degli addetti ai lavori.

È una delle tante novità della nascente unione bancaria. Senz’altro una delle più onerose. Per gli azionisti e obbligazionisti, su cui verrà scaricato buona parte del peso in virtù del bail-in, ma anche per la parte sana del sistema bancario: perché se è vero che con le nuove regole le probabilità di intervento dei fondi salva-banche saranno decisamente inferiori alla situazione attuale (come dimostrano in Italia le diverse operazioni condotte dal Fondo interbancario di tutela dei depositi e del Fondo di garanzia delle Bcc), i nuovi strumenti dovranno essere in grado di agire in tempi strettissimi, e dunque agli istituti sarà richiesto di versare in anticipo una somma che a livello europeo ammonta a 60 miliardi, ovvero l’1% dei depositi garantiti.

Dal punto di vista normativo siamo a metà del guado, visto che sia la direttiva che istituisce lo schema unico di garanzia dei depositi, (la Dgsd) sia quella che istituisce il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie (la Brrd) devono ancora essere recepite nell’ordinamento italiano, ma una data è certa, ed è il primo gennaio 2016. Con l’anno prossimo, infatti, entrerà in vigore il nuovo sistema regolatorio, ed entro quella data la banche italiane dovranno aver versato la prima della otto annualità previste entro il 2024.

Dal prossimo anno ammonterà a circa un miliardo, per il 2015 invece non v’è ancora certezza. Di qui, le diverse scelte operate dai singoli istituti: UniCredit, ad esempio, nella prima trimestrale ha già inserito tra gli oneri 91 milioni destinati a finanziare il Single resolution fund; Intesa Sanpaolo, invece, tra i rischi e oneri ha compreso i 75 milioni relativi al fondo di risoluzione europeo «stimati per l’intero 2015». Anche il Banco Popolare si è portato avanti, postando nella trimestrale costi per 23 milioni, e sulla stessa linea si è mossa Bpm con una quota di 8 milioni. Altri, come Ubi e Popolare di Sondrio, aspettano che si chiarisca il quadro: «Non essendo ancora completato il quadro giuridico di riferimento, nella presente relazione trimestrale non sussistono ancora i presupposti richiesti dai principi contabili per l’iscrizione a conto economico dei contributi ai due fondi», ha scritto invece Mps nella relazione trimestrale, aggiungendo però che «sulla base delle informazioni allo stato disponibili, l’impatto economico che si prevede per l’anno 2015 è comunque stimabile in 50 milioni» per entrambi i fondi, una somma destinata a salire a quota 65 milioni dall’anno prossimo e fino al 2024. Bper, invece, per ora ha stimato che l’impatto sarà pari a 8 milioni, mentre il Credito Valtellinese l’ha quantificato in circa 10 milioni.

Il quadro, analogamente ad altre questioni che riguardano il processo di integrazione del sistema bancario, per il momento dunque è denso di incognite. Tra i tanti punti di domanda, uno riguarda le banche medie e piccole, cioè quelle che si trovano al di sotto delle 120 direttamente vigilate dalla Banca Centrale europea: in caso di difficoltà, stabiliscono le direttive, non potrà scattare il meccanismo di difesa composto dai due fondi. Chi si occuperà di loro? Il quadro, ancora una volta, è incerto. Una prospettiva non irrilevante per l’Italia, dove tra le banche in amministrazione straordinaria - verosimilmente quelle più a rischio - ci sono istituti di dimensioni importanti come Cassa di risparmio di Ferrara (dove i depositi protetti sfiorano il miliardo) o Banca Marche, dove in questo caso le masse da rimborsare ai clienti supererebbero i 7 miliardi. Così si spiega il tentativo di imbastire un salvataggio, in entrambi i casi, entro fine 2015.

.@marcoferrando77

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