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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2015 alle ore 07:32.
L'ultima modifica è del 05 giugno 2015 alle ore 14:39.

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Difficile dire se l’Opec abbia davvero perso ogni influenza sul mercato del petrolio. Di certo, almeno per il momento, ha passato la mano. A guidare le danze sono oggi gli Usa, intesi come United Shale of America, gli Stati Uniti dello shale oil, potenza petrolifera che è venuta a far sfoggio di sé proprio a casa dei concorrenti: all’Opec Seminar, convegno triennale che si è concluso ieri a Vienna, alla vigilia del vertice dell’Organizzazione.

«Lo shale è qui per restarci», ha proclamato Ryan Lance, ceo di ConocoPhillips, che nella precedente edizione del convegno era stato guardato con sufficienza dalla platea quando aveva messo in guardia dal sottostimare il fenomeno. Era nel giugno 2012, praticamente ieri, ma da allora gli Usa - proprio grazie allo shale - hanno aumentato l’estrazione di greggio di oltre 3 milioni di barili al giorno, ricollocandosi tra i maggiori produttori mondiali con ben 9,6 mbg. In barba alle norme in vigore - che tuttora non consentono al greggio made in Usa di varcare i confini - Washington sta aumentando il suo peso anche come esportatore: lo scorso aprile ha venduto all’estero 586.379 bg secondo dati appena pubblicati dal Census Bureau, un record dal 1920. Si tratta di una quantità superiore a quella di alcuni Paesi dell’Opec, come la Libia e l’Ecuador, che nello stesso mese non hanno superato 350mila bg, o il Qatar, che esporta circa mezzo milione di bg.

«Penso che gli Stati Uniti dovranno considerare attentamente l’ipotesi di togliere il bando di esportazione», ha detto Lance, dopo che pochi giorni fa al Senato Usa è stato presentato un disegno di legge che punta a superare un divieto che risale agli shock petroliferi degli anni ’70. «Nei prossimi due anni dai nostri giacimenti di petrolio non convenzionale arriverà un eccesso di petrolio di qualità che il sistema di raffinazione Usa, così com’è configurato oggi, non sarà in grado di utilizzare».

L’ipotesi di una frenata dello shale oil il ceo di Conoco non la contempla proprio.«La strategia dell’Opec di far lavorare il mercato ci sta bene. Il sistema sopravviveva col barile a 100 $, sopravvive anche a 50-60 $. E c’è ancora spazio per migliorare, competendo con qualsiasi altro progetto estrattivo nel mondo». I progressi tecnologici e di efficientamento sono stati enormi, spiega Lance: il breakeven, ossia la soglia di redditività dello shale oil, si è abbassata del 15-30% solo nell’ultimo anno e «nelle aree migliori si riesce ad avere un ritorno del 10% sul capitale investito anche con il petrolio a 40 $».

Una sfida alla quale persino l’Arabia Saudita fatica a rispondere. Chiacchierando con i giornalisti (e non replicando formalmente a Lance) il ministro Ali al-Naimi ha spiegato a quali condizioni Riad tornerebbe a investire in nuova capacità estrattiva: «Potete garantirmi che ci sia domanda per il greggio saudita? Se ci metto un dollaro, mi garantite che quel dollaro mi restituirà il 10%? Non voglio il 16%, mi basta il 10%. Ma potete garantirmelo?».

La domanda petrolifera sta migliorando, hanno affermato più volte in questi giorni i ministri dell’Opec (e non solo loro). Ma è evidente che i consumi non stanno riguadagnando una forza tale da rassicurare che non ci sarà più bisogno di combattere per le quote di mercato. Anche per questo, al vertice di oggi l’Organizzazione ha deciso di proseguire con la politica adottata a novembre e di lasciare il tetto produttivo fermo a 30 mbg.

«Giorno dopo giorno siamo sempre più a nostro agio con questa decisione - ha affermato ieri il ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammed al-Mazruei -. Penso che la strategia abbia funzionato molto bene. Abbiamo visto segni incoraggianti di domanda nelle maggiori economie e l’eccesso di petrolio ha iniziato a ridursi in modo significativo».

La Banca mondiale è scettica: «Il prezzo del greggio dovrebbe restare sui livelli attuali per 3-5 anni - ha affermato Paulo de Sa, Practice manager dell’istituzione -. Ai Paesi produttori consigliamo per prudenza di redigere i bilanci statali considerando un prezzo di 60 piuttosto che 75 $, come oggi molti fanno».

Tra i partecipanti all’Opec Seminar, tuttavia, è opinione (o forse auspicio) diffuso che sul mercato del petrolio i fondamentali stiano migliorando. Ma non certo perché i “frackers” siano alla resa. La resistenza dello shale oil di fronte al crollo del prezzo del barile ha sorpreso persino i veterani del settore, costringendo tutta l’industria petrolifera - dalle grandi major, eredi delle Sette sorelle, ai colossi statali dell’Opec - a un difficile processo di adattamento: una «transizione che sarà profonda ma lenta», avverte Ben Van Beurden, ceo di Royal Dutch Shell, e non priva di rischi, perché oggi gli investimenti delle major stanno crollando, ma per soddisfare l’accresciuto fabbisogno di petrolio tra qualche anno non ci basterà più solo lo shale oil.

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