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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2015 alle ore 06:48.

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Sorprendente, sconcertante, forse - suggeriscono alcuni analisti - poco credibile. La produzione di petrolio degli Stati Uniti secondo l’Energy Information Administration (Aie) ha conquistato l’ennesimo record ad aprile: 9,701 milioni di barili di greggio al giorno, il massimo da maggio 1971. La crescita rispetto al mese precedente è di appena 9mila bg, ma attesta comunque un’eccezionale resistenza dello shale oil americano, se si pensa che il numero delle trivelle in azione negli Usa all’epoca era già più che dimezzato rispetto al picco di ottobre 2014 e che il Wti, dopo nove mesi di calo, era crollato poco prima ai minimi da sei anni: 43,46 dollari al barile contro gli oltre 100 dollari di un anno prima.

Il mercato si lascia tuttora guidare dalle statistiche governative: ieri il barile ha perso oltre il 4% al Nymex. Ma un numero crescente di esperti solleva dubbi sulla precisione delle cifre e dunque, in fin dei conti, sulla loro affidabilità. L’Eia stessa del resto non è soddisfatta dell’accuratezza delle informazioni sulla produzione, tanto che ha deciso di riformare la metodologia di raccolta dei dati.

Non tutte le statistiche diffuse dall’Energy Information Administration (Eia) sono considerate imprecise. Al contrario. In un mondo opaco come quello del petrolio gli Stati Uniti sono una fonte ineguagliata di dati trasparenti, costanti e attendibili. Nessuno avanza dubbi, ad esempio, sull’andamento delle scorte, che proprio ieri ha preso in contropiede il mercato, contribuendo a spingere il Wti sotto 57 dollari al barile per la prima volta da due mesi: invece che scendere, gli stock di greggio la settimana scorsa sono aumentati di 2,4 milioni di barili, a 465,4 mb, il massimo da oltre 80 anni per questo periodo. In questo caso, come per import-export o lavorazioni delle raffinerie, i dati arrivano direttamente dalle società coinvolte, che sono obbligate per legge a trasmetterle ogni settimana all’Eia. Ma per i dati di produzione non funziona così.

Le norme in vigore, introdotte negli anni ’70, avevano evitato di imporre un eccessivo carico di burocrazia sul settore dell’upstream, molto frammentato e con parecchie società di piccole dimensioni: oggi ci sono oltre 13mila produttori di petrolio e gas negli Usa, a fronte di meno di 150 raffinerie, che spesso fanno capo a grandi società con più di un impianto. Per i dati di produzione l’Eia si affida dunque ai singoli Stati, che per motivi fiscali monitorano attentamente quanto viene estratto dai pozzi. Peccato che le cifre definitive arrivino molto tardi: in media dopo nove mesi, ha ammesso la stessa agenzia, e spesso molto di più. Il Texas - che conta per quasi un terzo dell’output di petrolio statunitense - impiega addirittura 29 mesi per finalizzare i dati, con margini di errore fino al 40 per cento.

Per ovviare al problema l’Eia elabora delle sue stime di produzione, basate sulle serie storiche e altri parametri. Ma a distanza di tempo, quando le arrivano i dati precisi, è spesso costretta a sua volta a correggere i dati. Senza contare il fatto che le serie storiche hanno perso valore previsionale con il boom, recente e del tutto inatteso, dello shale oil. Il braccio statistico del dipartimento per l’Energia ha quindi chiesto e ottenuto di poter migliorare la metodologia e tra qualche mese potrà contare su dati mensili di produzione forniti direttamente da un campione di 600 società.

Naturalmente non è detto che finora l’Eia abbia sbagliato le stime per eccesso: gli analisti su questo punto sono divisi. Leonardo Maugeri, ex dirigente Eni oggi all’Università di Harvard, ripete spesso che le statistiche sottovalutano la produzione Usa e Citigroup fa notare che - almeno fino all’anno scorso - le revisioni sono quasi sempre state al rialzo. Al contrario Philip Verleger, analista indipendente, consulente della Casa Bianca ai tempi di Gerald Ford e di Jimmy Carter, pensa che le estrazioni siano state «drasticamente sovrastimate», con potenziali «enormi implicazioni per l’economia globale». «Il prezzo del petrolio sarebbe più alto, perché il surplus sarebbe un fantasma - spiega Verleger - Se si fosse capito l’errore, le politiche della Federal Reserve avrebbero potuto essere diverse».

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