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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2015 alle ore 06:38.

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TOKYO

L’atto d’accusa non è solo a una società ma a una «cultura aziendale» di antica tradizione giapponese per cui «non ci si può permettere di obiettare ai capi»: le conclusioni della commissione guidata da esperti indipendenti (e presieduta da un ex alto magistrato della pubblica accusa) sui bilanci “abbelliti” di Toshiba non ha lasciato scampo agli ultimi tre Ceo e ha provocato le dimissioni di 8 dei 16 membri del board, con altri esodati in arrivo. In una per lui penosa conferenza stampa di ben due ore alla sede centrale di Tokyo, con un profondo inchino di scuse di mezzo minuto, il numero uno Hisao Tanaka ha annunciato ieri la resa di fronte ai rilievi di una indagine che non solo ha appurato come i bilanci degli ultimi 7 anni abbiano sovrastimato i profitti per 156 miliardi di yen (oltre 1,2 miliardi di dollari), ma ha parlato di «problema sistemico» chiamando in causa il top management. In pratica, dopo la crisi globale del 2008 la Toshiba allora guidata da Atsutoshi Nishida - reduce dalla costosa acquisizione di Westinghouse - posero obiettivi irrealistici alle divisioni del gruppo, esercitando forti pressioni per raggiungere i risultati a tutti i costi; nel 2011, dopo l’incidente di Fukushima che metteva in crisi il business del nucleare, una presunta esigenza di non perdere il favore degli investitori e non sfigurare nei confronti della rivale Hitachi (peraltro anch’essa penalizzata nel suo analogo business nucleare) aggravarono la tendenza a chiudere un occhio sulle pratiche contabili creative del gruppo, la cui guida era intanto stata assunta da Norio Sasaki (passato poi, fino a ieri, alla vicepresidenza).

TOKYO

Una situazione fuori controllo ereditata da Tanaka (Ceo dal giugno 2013), che se ne è assunto la responsabilità pur negando di aver mai fatto pressioni per truccare i conti. Viene sostituito ad interim dal presidente Masashi Muromachi in un giorno in cui la Borsa ha cominciato a risollevare con un +6% un titolo che aveva perso oltre il 20% da quando lo scandalo cominciò a emergere lo scorso aprile. Evidentemente gli investitori pensano che si possa tornare a guardare al futuro, anche se si profila una maximulta dalle autorità di regolamentazione e Standard & Poor's minaccia di abbassare il rating.

Il più grave scandalo finanziario nella Corporate Japan dal 2011 – quanto il neo-Ceo straniero di Olympus scoperchiò un caso di bilanci truccati per un numero ancora superiore di anni (finendo subito licenziato) - rappresenta uno smacco anche per il governo, visto che l'Abenomics cerca di attirare investimenti stranieri promettendo maggiore trasparenza del sistema (in effetti ha appena varato un codice di corporate governance e favorito la presenza di membri indipendenti nei board aziendali). Non stupisce quindi che lo stesso ministro delle Finanze Taro Aso sia intervenuto per biasimare il caso come un pericolo per la credibilità del sistema finanziario.

Sono curiose le analogie a livello politico, ora che, a 70 anni dalla fine della guerra, il dibattito sulle responsabilità si è ravvivato. Chi volle il conflitto? Chi lo decise? Eri Hotta, nell'illuminante libro “1941”, parla di leader tutti poco convinti delle possibilità di vittoria e tuttavia indotti o propensi ad assecondare o persino cavalcare la rotta di collisione con gli Usa. È il solito «enigma del potere giapponese», diffuso e sfuggente, studiato dal bestseller di Karel Van Wolferen. Come il generale-premier Tojo per Pearl Harbor, così oggi appare giusto che Tanaka, Sasaki e altri paghino per i trucchi del bilancio societario. Anche se sul piano strettamente personale potrebbero invocare più di una attenuante. Viene poi in mente che la commissione di inchiesta su Fukushima parlò delle “radici culturali” alla Tepco come prodromi alla catastrofe (senza che poi nessun dirigente dell'utility abbia pagato). Il sistema-Giappone e le sue tradizionali pratiche di leadership, insomma, appaiono come non mai un punto di debolezza .

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