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Questo articolo è stato pubblicato il 17 ottobre 2011 alle ore 19:20.
La «clamorosa disattenzione dei controlli istituzionali» e la «compartecipazione delittuosa» dei manager e del revisore dei conti della Parmalat hanno prodotto il crac del colosso alimentare parmense.
La Corte di Cassazione - dopo aver confermato il 20 luglio scorso la condanna dell'ex patron Calisto Tanzi, colpevole di aver frodato investitori e Consob - con la sentenza di oggi, n. 37370 (si legga il testo sul sito di Guida al diritto) si occupa delle responsabilità di due amministratori e del revisore dei conti. E conferma anche quelle. Gli ermellini si allineano - salvo una riduzione della pena di tre mesi per estinzione del reato di calunnia a carico di uno dei due manager – alla sentenza della Corte d'Appello di Bologna, bollando i due come gregari di Tanzi in una struttura criminale di cui non solo conoscevano gli obiettivi ma si adoperavano per raggiungerli.
Da revisore dei conti a cattivo consigliere
La pena più severa, di sette anni e quattro mesi, c'è stata per il revisore dei conti che avendo eluso le delicate funzioni di controllo ha "assunto un ruolo fondamentale nella genesi del dissesto". Una debacle resa ancora più devastante dalla «clamorosa disattenzione dei controlli istituzionali». Il revisore – afferma la Cassazione – ha dismesso i panni dell'auditor per indossare quelli di un "concorrente esterno" di Tanzi e dell'allora direttore finanziario «fungendo da suggeritore delle più accorte strategie fraudolente» che sarebbero valse a eludere la verifica dei nuovi controllori, alla scadenza ex lege, del mandato della società di revisione di cui era partner. Un "advisor" tanto complice e accorto da consigliare di sostituire il vulnerabile, sistema di occultamento delle perdite basato su una società con sede nelle isole Antille con la sofisticata costituzione di una società nelle isole Cayman. Un "contenitore" che doveva svolgere lo stesso ruolo di discarica delle società antilliane. La Cassazione ritiene che la pena esemplare sia giustificata dal tradimento di un ruolo di garanzia che non è stato assicurato da chi, come il ricorrente, ha cambiato casacca, trasformandosi da arbitro in giocatore in una partita disputata da una squadra che era un'associazione a delinquere.
Il pericoloso trasformismo degli operatori di rating
La Suprema corte non perde l'occasione di trovare nel fenomeno degenerativo delle analogie «con la recente cronaca». Mettendo in guardia ancora una volta dal trasformismo che avrebbe inquinato rilevanti settori dell'economia globale in cui «accreditati operatori di rating, dal cui severo giudizio dipende la credibilità economica di grandi imprese e persino di interi Stati (per la certificata capacità di far fronte agli impegni, cosiddetta solvenza) diventano a un certo punto, consiglieri privilegiati del soggetto da controllare, suggerendo le iniziative strategiche più opportune per mantenere, comunque, un determinato coefficiente di affidabilità tale da consentire, nonostante tutto una rassicurante valutazione. Il controllore si pone dunque dalla stessa parte del soggetto che dovrebbe controllare». Un cambio di campo che se in altri ambiti è censurabile solo dal punto di vista deontologico, in economia – avverte la Cassazione - ha conseguenze devastanti per il tradimento delle aspettative di una platea sconfinata di utenti: dagli investitori istituzionali ai piccoli risparmiatori.
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