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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2013 alle ore 21:08.

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I ritardi nell'esecuzione dei provvedimenti che garantiscono il diritto di visita di un genitore rischiano di aprire un nuovo fronte di cause seriali, con annesse condanne, alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Con Strasburgo come ultima spiaggia per tanti genitori separati, frustrati dalle inefficienze del sistema italiano che non è in grado di garantire a un padre separato di continuare un rapporto stabile con il figlio. Con danni per il genitore ma anche per il bambino. Strasburgo, da ultimo con la sentenza depositata il 29 gennaio 2013 (Lombardo, ricorso n. 25704/11), ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Questo perché le autorità nazionali non hanno messo in atto le misure necessarie a consentire una realizzazione effettiva del diritto di visita a un padre. Dopo la separazione dalla moglie, i tribunali interni avevano affidato la bambina alla madre ma avevano anche previsto un diritto di visita per il padre, con incontri regolari. A causa degli ostacoli frapposti dalla madre, il padre non aveva potuto esercitare il suo diritto con gravi danni sul rapporto con la figlia. Di fronte all'inerzia delle autorità nazionali, inclusi i servizi sociali, l'uomo si era rivolto alla Corte che gli ha dato ragione. Gli Stati – ha precisato Strasburgo – devono mettere in atto tutte le misure idonee a consentire un'attuazione effettiva del diritto alla vita familiare, tenendo conto dell'interesse superiore del minore che, d'altra parte, deve essere garantito anche in base alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo.

La mancata attuazione dei provvedimenti giudiziari funzionali a garantire un'unione tra genitori e figli costituisce una violazione della Convenzione. Tanto più che il decorso del tempo ha "conseguenze irrimediabili per le relazioni tra bambino e genitore che non vive abitualmente con lui". Troppo poco limitarsi a constatare che la madre non aveva eseguito il provvedimento del tribunale. Per non incorrere in una violazione della Convenzione gli Stati devono intervenire con misure effettive la cui validità deve essere giudicata anche alla luce del fattore tempo. In pratica, se le misure non sono realizzate in modo rapido è certa una violazione della Convenzione. Una conclusione che apre la strada ad altre condanne per l'Italia visti i ritardi e l'inefficacia di misure concrete nell'esecuzione dei provvedimenti in materia familiare.

Limitate anche le possibilità di giustificazioni dello Stato in causa che non può trincerarsi dietro il comportamento di uno dei genitori ma deve agire in modo efficace e superare gli ostacoli. Rispetto alla precedente prassi giurisprudenziale, la Corte aggiunge un altro tassello perché si sostituisce alla valutazione delle misure applicate dai giudici nazionali bocciando quelle "automatiche e stereotipate". Sono mancate, per la Corte, misure idonee a obbligare i due genitori a una terapia familiare o incontri in una struttura specializzata. Né i servizi sociali hanno utilizzato la mediazione per incoraggiare le parti a cooperare. Di qui la violazione della Convenzione e un obbligo di indennizzare il padre per i danni non patrimoniali con una somma pari a 15.000 euro e 10.000 per le spese processuali. Adesso la parola passa allo Stato che dovrà attuare la sentenza entro sei mesi. Se certo la liquidazione dell'indennizzo non incontra ostacoli, tutta in salita l'adozione di misure strutturali che impediscano il ripetersi di un'analoga situazione. D'altra parte, già in passsato, dopo la sentenza Piazzi del 2 novembre 2010, l'Italia si è limitata a liquidare l'importo a titolo di indennizzo e ha presentato un Piano d'azione in cui, in modo generico, ha sottolineato l'impegno nella diffusione della sentenza e una maggiore vigilanza sull'esecuzione delle misure nei rapporti familiari. Davvero troppo poco.

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