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Al Salone del gusto rinasce l'orgoglio delle economie locali. Petrini vince la scommessa Terra Madre

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2010 alle ore 18:46.

TORINO. Non è più solo l'Italia dei ghiottoni che si riunisce al Lingotto di Torino nei cinque giorni del Salone del gusto. Certo, i corridoi dell'ex stabilimento Fiat sono più affollati di una metropolitana di Tokio all'ora di punta, gli assaggi si rimbalzano da uno stand all'altro, le scoperte gastronomiche accendono lo sguardo dei gourmet, ma la partita più importante è quella che si svolge silenziosamente nell'Oval, eredità delle Olimpiadi invernali, che si raggiunge attraverso un breve tunnel trasformato in parata dello street food.

Così, magari dopo aver gustato lo straordinario parmigiano invecchiato novanta mesi (avete letto bene, più di sette anni) di Gennari o la tavolozza dei mieli Thun (l'apicultore Andrea Paternoster è arrivato addirittura a creare un "pantone" con i colori dei fiori e dei mieli che produce) o aver assaggiato il sushi di pasta realizzato con i rigorosi monograno Felicetti dal bistellato Davide Scabin, chi ne ha avuto la possibilità è potuto entrare all'Oval e assistere a uno dei workshop in cui si riuniscono i quasi 6mila rappresentanti delle comunità del cibo di cinque continenti. Quando cinque o sei anni fa il patron di Slow Food Carlo Petrini ha cominciato a pensare a Terra Madre pochi avrebbero scommesso sulla riuscita di questa sua nuova chimera. E invece la "rete dei contadini" è stata creata e si è sviluppata.

Ora si è arrivati al turning point: come molti delegati hanno ricordato Terra Madre è riuscita a risvegliare il senso di appartenenza, la fierezza delle proprie origini e del proprio lavoro, ora bisogna che la rete vada oltre i singoli progetti - molti interventi sull'educazione alimentare dei bambini, forme di sostegno agli orti urbani nelle grandi città africane, sviluppo di ricerche sugli alimenti tradizionali quasi abbandonati - per creare una forza d'impatto capace, nelle parole di Petrini di "«dare valore all'economia locale, rivendicare la sovranità alimentare e sostenere la diversità che, al contrario della differenza, è di fatto uguaglianza».

Anche se, come hanno ricordato l'antropologo dell'economia Serge Latouche e Raj Petel, autore del fortunato Food Rebellion, la strada è lunga e difficile. Se la comunità locale è distrutta, ha detto Latouche, la battaglia è quasi persa in favore della «colonizzazione dell'immaginario», come nel caso di quella signora di un ex colonia francese che dovendo sottoporsi a un'operazione rifiutava l'«anestesia locale» perché avendo possibilità economiche avrebbe potuto permettersi un'«anestesia importata». Patel ha invece invitato a prendere esempio dai Tea party americani, formidabili nelle tecniche organizzative e di reclutamento. Stasera durante la cerimonia di chiusura di Terra Madre sarà presentato un documento condiviso sulla politica alimentare e la sostenibilità.

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Si vedrà cosa succederà nei prossimi due anni, in attesa della nuova riunione mondiale. Nel frattempo, molto più vicino a noi, si discute di quale sia il giusto prezzo della qualità dei cibi, di come avvicinare consumatori e produttori (che sia con i Gruppi di acquisto solidale o i mercati della terra) con un occhio all'etica e all'ambiente. Senza dimenticare che, accanto agli appassionati disposti a pagare il doppio che al supermercato una gallina dei presidi Solw Food perché ne riconoscono il valore aggiunto, sono tanti quelli che dovendo rinunciare a qualcosa in tempi di crisi, risparmiano proprio sull'alimentazione. Cioè, spesso, sulla propria salute.

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