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Governo e opposizione, scontro tra due debolezze. I possibili scenari del dopo fiducia

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 15:50.
L'ultima modifica è del 12 dicembre 2010 alle ore 16:12.

La grande ordalìa parlamentare che ci attende nelle prossime ore appare soprattutto come uno scontro di due debolezze. Comunque vada a finire, c'è da essere scettici sull'immediato futuro del paese. Sono deboli gli oppositori di Berlusconi e lo è anche il presidente del Consiglio. I primi, uniti in un ideale cartello del «no», lo sono perchè la loro iniziativa ha perso slancio negli ultimi giorni, come dimostra il passo dei finiani «moderati». Non è solo questione di «calciomercato» in Parlamento, come dice Fini (negoziati non proprio trasparenti, anzi limacciosi, che coinvolgono una serie di deputati di confine).

Questo argomento ha la sua validità, ma non esaurisce il tema. Anzi, rischia di diventare un alibi per mascherare la sconfitta ed evitare di porsi gli interrogativi giusti.

Qual è infatti la ragione vera della debolezza di questo cartello che va da Di Pietro a «Futuro e Libertà», passando per il Pd e Casini? Con tutta evidenza è l'impossibilità di offrire una valida alternativa di governo. In tempi normali l'opposizione dovrebbe precipitarsi a chiedere le elezioni anticipate. Può decidere di non farlo, ma allora presenta la piattaforma di un nuovo esecutivo pronto a sostituire quello dimissionario (è ciò che accade, sia pure di rado, in Germania con la «sfiducia costruttiva»). Se viceversa non chiede le elezioni perchè non si sente sicura e non è nemmeno in grado di proporre una convincente nuova coalizione, è un'opposizione che rivela la sua fragilità.

L'«operazione sfiducia» è in difficoltà soprattutto perchè non si sa cosa accadrà all'indomani del 14. La Camera può aprire la crisi, ma nessuno, tra i politici, sa esattamente come gestirla. Tanto è vero che tutti gli occhi si rivolgono già oggi al Quirinale, nella speranza che Giorgio Napolitano disponga di una bacchetta magica. Il resto, al momento, sono formule prive di sostanza: a cominciare da quel «governo di transizione» di cui non s'intravedono i contorni e i contenuti. E la manifestazione del Pd a San Giovanni non ha avvicinato la soluzione del rebus.

Si è trattato di una prova identitaria e il partito di Bersani l'ha superata. Ha dimostrato, ma non c'erano dubbi al riguardo, che una futura alternativa a Berlusconi non potrà fare a meno del Pd. Il problema tuttavia riguarda l'oggi. È oggi che l'alternativa non si vede. Sotto questo aspetto le bandiere al vento di San Giovanni servono a rafforzare il morale della sinistra, ma non costituiscono una risposta.

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Quanto alla debolezza del presidente del Consiglio, essa è altrettanto evidente. In primo luogo il disfacimento della maggioranza è reale, se lo confrontiamo con il risultato elettorale del 2008.

La delusione di tanti italiani che avevano allora affidato il loro voto al centrodestra è palpabile. Non basta gridare ogni giorno al tradimento per esorcizzare questa verità. Se ci sono tanti «traditori» nel campo di Berlusconi, forse il capo avrebbe il dovere di riflettere sui suoi errori. Il Pdl doveva essere la casa dei moderati, imponendo la sua egemonia anche alla Lega e consolidando un blocco sociale innovativo e produttivo.

Al contrario, ci si è cacciati in un «cul de sac» fatto di estenuanti quanto sterili polemiche, punteggiate oltretutto da gesti illogici come l'estromissione di Fini dal partito di cui era formalmente il co-fondatore. Con il risultato che lo stesso Fini ha moltiplicato, da presidente della Camera, la sua ostilità verso il governo, in una sorta di braccio di ferro al termine del quale potrebbero esserci non un vincitore e un vinto, ma due vinti. Come se non bastasse, Bossi non è mai stato così determinante, pienamente consapevole del suo potere su Palazzo Chigi.

In ogni caso, il principale motivo della debolezza di Berlusconi riguarda il dopo 14 dicembre. Beninteso, ottenere la fiducia, sia pure d'un soffio, non è irrilevante: per il premier segna la differenza tra un successo e una disfatta. Sul piano tattico, gli permetterà di gestire la fase successiva da una posizione d'indubbio vantaggio. Purchè sia chiaro che due o tre voti di margine non bastano per governare. Dopo il 14 Berlusconi, se avrà la fiducia, dovrà avviare una trattativa: con Casini o con lo stesso Fini o con entrambi, si vedrà. Dal presidente del Consiglio ci si attende però un'iniziativa alla luce del sole. Convinta e decisa.

Prima del 14 una vera trattativa era impossibile, nonostante gli sforzi meritevoli di Gianni Letta e di pochi altri. Subito dopo il negoziato diventa essenziale. Ieri sera Berlusconi, prendendo lo spunto dal documento preparato dalle «colombe» finiane Moffa e Augello, ha aperto uno spiraglio al confronto sulla riforma della legge elettorale. C'è da augurarsi che non si tratti solo di una mossa per gettare zizzania dentro «Futuro e Libertà» e tagliare la strada a Fini, ma di un impegno consapevole per allargare la maggioranza, dopo il 14, mettendo sul tavolo un tema concreto. A quel punto il governo «Berlusconi bis» potrebbe diventare una prospettiva realistica, anzichè uno stucchevole gioco delle parti.

Di certo, tutto quello che può rafforzare la base dell'esecutivo e la sua determinazione è utile al paese. Altrimenti le elezioni diventeranno la naturale tomba di quel «Parlamento dei nominati» - secondo la definizione di Marco Pannella - che ha contribuito a rendere questa legislatura povera di risultati e ricca di litigi come e più delle precedenti. Triste epitaffio di un bipolarismo molto propagandato e purtroppo privo di anima.

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