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«Gheddafi resterà al suo posto», pensano gli ebrei di Roma che lasciarono la Libia nel 1967

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2011 alle ore 15:54.

Secondo un detto sulla porta delle case ebraiche si trovano sempre due oggetti: uno è la Mezuzah, che contiene passi della Torah e che si bacia quando si entra e quando si esce; l'altro è la Mizvada, la valigia, ricordo dei viaggi già percorsi e monito di quelli che inevitabilmente verranno. Per gli ebrei, però, chi non se ne andrà mai è proprio Muammar Gheddafi. Shalom Tesciuba ha 76 anni, ne aveva 33 quando assieme agli altri ebrei libici fu costretto a lasciare Tripoli. Era il 1967, e Gheddafi non si era ancora neppure iscritto all'Accademia militare di Bengasi. Ma il 5 giugno era scoppiata la Guerra dei sei giorni fra Israele e la compagine Egitto-Siria-Giordania, e per gli ebrei, che per oltre duemila anni avevano vissuto in pace e prosperità su quel lato del Mediterraneo, tutto cambiò.

Oggi il signor Tesciuba è il presidente del Comitato Assistenza Ebrei di Libiache si trova a Roma, in via Padova, quartiere Piazza Bologna, e da lì segue quello che sta accadendo nel paese dove è nato. Anche se, dice, «da 15 giorni non abbiamo più notizie dalla Libia, seguiamo quello che accade tramite Al Jazeera».

La sua comunità è composta da circa tremila persone, arrivate 44 anni fa a Roma con venti sterline e un massimo di venti chili di bagaglio. La Libia allora stava cambiando. «Ma oggi non cambierà nulla. Entro 5-6 giorni, una settimana al massimo, queste rivolte rientreranno. Forse ci sarà qualche riforma, ma sarà molto lieve. Il fatto è che la stampa esagera molto: in Libia tutto sommato si vive bene, anche perché il costo della vita è molto basso. Pensi che un chilo di carne costa solo 4 euro. E Tripoli stessa è piena di auto di lusso».

Certo, doveva essere bella la Tripoli degli anni Sessanta, dove commerciava spezie: «Ma due ore dopo lo scoppio della guerra c'erano già stati assalti ai negozi degli ebrei, vennero uccise due intere famiglie, ci furono centinaia di feriti. Dieci giorni dopo la polizia iniziò a chiederci se volevamo andarcene. Io ho lasciato casa mia con ancora le tende alle finestre. E sono arrivato qui, dove ho ripreso la mia attività».

Hamos Guetta, invece, imprenditore lo è diventato qui in Italia. Oggi ha 56 anni, ne aveva 12 quando lasciò la Libia con la sua famiglia. Ha fondato i brand di abbigliamento Obj e Oxer, con circa 40 negozi solo a Roma, gestisce il sito Italiaebraica.it e poche ore fa ha caricato sul suo canale Youtube un video sulla storia degli ebrei libici, che si apre con le palme del lungomare di Tripoli immortalate con una tremante Super8. Anche secondo lui Gheddafi alla fine resterà al suo posto, per tre motivi: «Innanzitutto ha centinaia di villaggi beduini dove rifugiarsi. Poi ha il sostegno di molta parte delle famiglie "bene" di Tripoli, che temono l'avvento delle fazioni islamiste della Cirenaica, che Gheddafi ha represso finora, e che allargano il sostegno grazie al loro network con altre decine di famiglie. E poi è stato molto abile a costruirsi una rete di interessi internazionali».

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Tags Correlati: Al Jazeera | Comitato Assistenza Ebrei | David Meghnagi | Egitto-Siria-Giordania | Imprese | Israele | Libia | Libiache | Muammar Gheddafi | Primo Levi | Roma | Shalom Tesciuba | Tripoli

 

«Comunque va ricordato - continua - che non è stato Gheddafi a cacciare gli ebrei dalla Libia, ma solo a ufficializzare il sequestro dei loro beni deciso nel 1967. Quell'anno a lasciare la Libia furono gli ebrei più capaci, gli imprenditori, mentre i poveri erano già partiti nel 1948 per cercare fortuna in Israele. Per questo dico che l'emigrazione in Italia, e a Roma soprattutto, è stata un'emigrazione "di qualità". Un patrimonio intellettuale che oggi dà lavoro a circa cinquantamila persone. Eppure ho molti amici, proprietari di marchi molto noti, che preferiscono non rivelare chi sono, per paura che l'antisemitismo faccia calare le vendite. E pensare che nel 1930 mio nonno pagava in anticipo il raccolto agli arabi, e con una stretta di mano». Ma la Libia di oggi è ancora più lontana. E le strette di mano per strada, almeno per ora, appartengono al passato.

«Nel 1967 avevo 18 anni. Tutta la mia adolescenza è stata segnata dall'angoscia che ci avrebbero massacrati», racconta David Meghnagi, 61 anni, psicanalista, docente di Psicologia Clinica, Psicologia dinamica e Psicologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, già vicepresidente delle Comunità Ebraiche Italiane e autore del libro "Le sfide di Israele", pubblicato di recente da Marsilio. «Ricordo che a poche ore dallo scoppio della guerra la popolazione si riversò in strada, pensando che avessero vinto gli arabi. Dopo iniziò la caccia all'ebreo. In ventidue anni ci furono ben tre pogrom. Rimanemmo chiusi in casa per un mese. Infine, a luglio, ci fecero partire con un visto turistico». Con quello che sta accadendo oggi in Libia vanno fatte molte distinzioni, sottolinea il professor Meghnagi: «Oggi sta implodendo un regime costruito sulla violenza, che per troppo tempo è stato tollerato dalla comunità internazionale. E' una situazione tragica, con grandi pericoli, difficili da prevedere Tutto ciò a poca distanza dall'Europa. Il Mediterraneo è un mare in ebollizione. Ci vuole un nuovo piano Marshall che coinvolga le due sponde del Mediterraneo e abbia tra i suoi pilastri il riconoscimento pieno da parte del mondo arabo dell'esistenza di Israele». Per ora i fumi dell'"ebollizione" appannano il futuro. «Vede, per molti anni ho lavorato sul tema dell'elaborazione del lutto, del trauma da separazione, anche in collaborazione con il mio amico Primo Levi - conclude Meghnagi - E posso dire che di tutti i mali dell'umanità, forse il più terribile è la perdita della speranza in un futuro migliore».

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