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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2011 alle ore 06:36.

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Così, Banca centrale europea e Federal Reserve americana si stanno avviando su strade diverse. La prima, facendo capire al mercato che alzerà i tassi d'interesse nel prossimo incontro del 7 aprile, ha avvertito tutti i rischi della incipiente inflazione provocata dal rialzo dei prezzi delle materie prime e ha compiuto il primo passo per uscire dall'emergenza di una politica monetaria ultra espansiva. La Fed rimane invece determinata, non solo a tenere i tassi pressoché a zero, ma anche a creare altra liquidità per 600 miliardi di $ acquistando titoli di stato. Mentre Jean-Claude Trichet riconosce che le tensioni sui mercati delle commodity sono «il risultato di una forte crescita economica e dell'ampia liquidità a livello globale» (liquidità gonfiata dalle politiche monetarie espansive), Ben Bernanke nega che i bassi tassi imposti dalla Fed e l'imminente quantitative easing siano responsabili dei rialzi nei prezzi delle materie prime. A dire il vero Bernanke nega anche che l'inflazione sia ora un problema per gli Usa.

Vedute opposte tradiscono evidentemente i diversi mandati delle due banche. La Bce ha ereditato dagli «arci-monetaristi della Bundesbank», come con pizzico di ironia giudicano al di là dell'Atlantico, il compito di assicurare la stabilità dei prezzi. La Fed aggiunge anche il mandato della massima occupazione che la rende in tal modo una costola del Tesoro americano. Dal 2007 in poi è diventata questa la sua priorità. Due giorni fa, Bernanke ha detto che il piano di spesa proposto dai repubblicani comporterebbe 200mila posti di lavoro in meno. E nello stesso giorno, Dennis Lockhart, presidente della Fed di Atlanta, ha ribadito che «ci vorrebbero parecchi mesi di sostenuta e solida crescita dell'occupazione per convincersi che la ripresa economica sia veramente salda»: pur pronosticando una crescita del Pil (3-4%) doppia di quella europea. Di alzare i tassi d'interesse non si parlerebbe, dunque, per «parecchi mesi» ancora.
Qualcuno potrebbe obiettare che l'Europa, con i prezzi saliti a febbraio del 2,4%, sarebbe più suscettibile al rischio d'inflazione degli Stati Uniti, dove il consumer price index è all'1% per la componente core (senza alimentari ed energia) e all'1,6% complessivamente. In parte è vero, visto che il costo del lavoro è stato ieri ufficialmente rivisto in calo del 2,6% nel 4° trimestre 2010. Ma ci sono anche diverse e più convenienti metodologie per calcolare i prezzi. Al riguardo, il deputato repubblicano Steve Pearce è uscito l'altro giorno con una battuta fulminante: «C'è più gente che crede che gli alieni siano atterrati a Roswell di quella convinta che l'inflazione sia all'1,6%».

Ma, oltre al mandato della massima occupazione (siamo davvero sicuri che dopo aver delocalizzato parte dell'industria si possa tornare ai livelli di 10 anni fa?), i critici più severi insinuano il dubbio che la Fed si stia in qualche modo sostituendo al ministero del Tesoro. Bill Gross si chiede chi comprerà i Treasury, una volta esaurito il secondo QE. O, comunque, chi li comprerà a questi bassi rendimenti. Non può sfuggire che nel giro di tre anni andrà a scadenza circa la metà dei 9mila miliardi di debito federale e che quella metà, grazie alla politica di tassi quasi a zero, costa allo stato più o meno lo 0,55% in interessi.
Anche in Europa c'è chi critica la Bce, come hanno fatto ieri gli analisti di Barclays Capital. La banca centrale «si sta preparando ad alzare i tassi troppo presto», hanno commentato. L'osservazione sarebbe tanto più vera se si considera che, per i paesi "periferici" come Grecia, Spagna Portogallo, Irlanda e anche Italia, un probabile rialzo di 25 centesimi del tasso ufficiale potrebbe creare qualche problema in più alla loro stentata ripresa economica e alle loro sofferenti finanze pubbliche. E a gran parte dell'area euro, non piacerà soprattutto l'idea di ritrovarsi una valuta ulteriormente apprezzata rispetto al dollaro. Anche se in questo caso è Washington che sta giocando una partita troppo disinvolta.

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