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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:10.

La precarietà delle condizioni di lavoro dei giovani è una facile arma polemica dei nostri politici nei dibattiti tv, ma pochi sembrano interessati a discutere dei rimedi concreti. L'Italia ha un mercato del lavoro duale: una parte dei lavoratori sono largamente garantiti contro i rischi d'impiego, possono contare sulla cassa integrazione e su una relativa stabilità del rapporto di lavoro garantita da un rigido sistema di regole. Un'altra parte composta prevalentemente da giovani, donne e immigrati, non gode di questi privilegi, come evidenziato anche dal Papa nel suo discorso di ieri.
Q uesto si evince dalla dimensione del settore delle piccole imprese, dall'accresciuta incidenza dei contratti atipici (il 40% tra i lavoratori in età compresa tra 15 e 24 anni), dalle finte partite Iva e dal fatto che i lavoratori più giovani, nonostante un più alto grado di istruzione, hanno registrato una perdita relativa nei salari di ingresso rispetto alle generazioni precedenti, non compensata da una più rapida progressione di carriera.
Semplificando, il nostro mercato del lavoro determina bassi salari e rischi elevati per i giovani, poca flessibilità e molta stabilità del posto di lavoro per i più anziani. Se la precarietà dei giovani fosse solo transitoria, una fase di passaggio verso un futuro caratterizzato da stabilità e salari più elevati, e senza ripercussioni sulla produttività, avremmo un problema limitato. Ma questa visione trascura molte ombre. Per prima cosa, un profilo delle retribuzioni e dei rischi sperequato a svantaggio dei giovani disincentiva la formazione del capitale umano, perché non premia l'istruzione e il talento. In secondo luogo, se è possibile offrire solo un contratto a tempo determinato, le imprese hanno pochi incentivi ad accrescere le competenze dei lavoratori appena assunti, specialmente quando questi ultimi sono i primi ad essere licenziati in caso di crisi. Infine, l'Italia è tra i paesi dove la disoccupazione giovanile è maggiormente diffusa. Quindi, non si tratta solo di un problema di equità intergenerazionale, ma soprattutto di un ostacolo alla crescita.
La dualità del mercato del lavoro è particolarmente accentuata in Italia, ma è un problema che condividiamo con altri paesi europei. Una maggiore rigidità della legislazione a protezione dell'impiego (Lpi) determina generalmente un più ampio ricorso a forme contrattuali atipiche, una riduzione dell'occupazione (specialmente giovanile) e una diminuzione relativa dei salari di ingresso. Questo dato si evince da ampia varietà di studi che fanno uso di indici Lpi calcolati dall'Ocse. Un recente lavoro dell'Iza (Institute for the study of labour) mostra che nel Regno Unito, dove la legislazione sul lavoro è meno rigida, il salario orario massimo si ottiene tra 42 e 45 anni, mentre in Germania, dove la legislazione è più protettiva, si ottiene tra i 50 ed i 55 anni. Il profilo del salario medio in base all'età ha un andamento a campana nel Regno Unito, ed un andamento sostanzialmente piatto fino a 43 anni, per poi crescere fino a età avanzata, in Germania. I giovani tedeschi e italiani ottengano salari nettamente inferiori alla propria produttività individuale.
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