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Questo articolo è stato pubblicato il 03 aprile 2011 alle ore 08:11.
Si dice che un giorno a Gianni Agnelli fosse stato offerto di poter acquistare una vettura Alfasud "al costo" e che egli avesse risposto che avrebbe preferito pagarne "soltanto" il prezzo: quella è l'Iri che non vorremmo rivedere.
Un conglomerato che aveva perso l'originaria ispirazione per i grandi progetti e che creava posti di lavoro in perdita e posti di comando di clientela, per costruire consenso. Si cominciò a scegliere i manager delle aziende pubbliche, non solo Iri, in funzione delle loro capacità in quella direzione: così non era più possibile chieder loro conto dei risultati economici, poiché da essi altro si attendeva. Ma, ancor peggio, deresponsabilizzati sui risultati economici, essi potevano appoggiare, attraverso iniziative industriali, questo o quel politico senza doverne rispondere. Non era più chiaro chi avesse le mani sul timone: la politica che nominava i manager, o i manager che disponevano dei mezzi per fare emergere i politici di riferimento? La commistione di politica e business estrae dai due insiemi il peggio di ciascuno: manager inefficienti e politici non trasparenti.
Una netta separazione dei due ambiti appare necessaria. Ma è possibile? "Business is business" va bene fino a quando il mondo degli affari è sottoposto alle regole del mercato: esse impongono che il più efficiente scacci gli altri; chi imposta progetti e non riesce viene espulso. La crisi finanziaria che ci affligge da più di tre anni ha dimostrato che, almeno in quel settore, chi si impegna in affari che non riescono non viene espulso, perché il sistema non può permetterselo: deve essere salvato, a spese dei contribuenti. Quindi i Governi non possono disinteressarsi dell'operato dell'industria finanziaria: cercano di intervenire con strumenti non intrusivi, come Basilea 3 e le varie Authority sopranazionali.
Anche nelle industrie non finanziarie il mercato concorrenziale dei libri di testo non è quello che funziona nei settori di punta; immensi investimenti in innovazione e in penetrazione dei mercati costituiscono barriere all'entrata che possono essere affrontate solo da soggetti talmente grandi da essere per definizione estranei alla concorrenza classica. La partita si gioca su altri tavoli, dove i fattori di sistema sono platealmente presenti: dinamica demografica, dotazione di risorse naturali e tecnologiche, posizione geografica, potenza militare sono i principali. La gestione di questi fattori è in alcuni casi compito indelegabile dello Stato; in altri non è comunque fattibile a piccole dosi.
Di qui l'interesse a far sì che la mano pubblica possa indicare indirizzi preferenziali e, all'occorrenza, possa prestare sostegno, a condizioni di mercato, a operazioni che non trovano sul momento immediati mezzi disponibili. Tuttavia non andrebbe mai dimenticato che imprenditori e politici appartengono a due mondi distinti, caratterizzati da modalità operative assai diverse. Ai primi si addice la rapidità, la riservatezza, la disponibilità a rischiare in proprio in vista di un obiettivo che non sempre è conveniente illustrare ai concorrenti; ai secondi si impone trasparenza, accountability, chiarezza nell'indicare i motivi delle scelte. Ecco perché, se i due mondi decidono di collaborare, è bene che lo facciano attraverso strutture intermedie che consentano di mantenere separate due sfere che non si debbono mischiare.
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