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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2011 alle ore 17:05.

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Un piatto di sushi (Ansa)Un piatto di sushi (Ansa)

«Eh sì, purtroppo nei nostri ristoranti la clientela è un po' diminuita, diciamo del 10-15% nelle ultime due settimane». La signora Naoko Aoki, titolare del ristorante Osaka di Milano, è anche segretaria dell'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi. Nella sua voce piena di cortesia, come lo stile del Sol Levante impone, non manca però un velo di preoccupazione. L'acqua del mare della prefettura di Fukushima è sempre più radioattiva, e sushi e sashimi si fanno con il pesce. «La paura dei clienti è del tutto infondata - continua la signora Aoki - perché il pesce che usiamo nei nostri ristoranti viene dal Mediterraneo, non dal Giappone».

E anche se il ministero della Salute ha disposto severi controlli su tutto ciò che viene dal paese dei ciliegi, la fobia radioattiva resiste. Ma per gli altri alimenti, per esempio la salsa di soia? «Guardi, quella viene prodotta in Europa, in Olanda. Dal Giappone vengono importati piuttosto dei preparati alimentari, come il miso (preparazione a base di soia e base della celebre zuppa, ndr). Ma le scorte presenti ora in Europa bastano per periodo compreso fra i sei mesi e un anno. Poi si vedrà, ma è certo che quello che oggi nei ristoranti si serve cibo del tutto sicuro». Per diffondere queste informazioni il più possibile, al consolato giapponese di Milano l'associazione sta anche preparando anche una serata-evento con giornalisti e varie autorità del Comune.

A differenza di India e Russia, l'Italia non ha bloccato del tutto le importazioni dal Giappone, disponendo solo delle strette limitazioni. E questo soprattutto a causa delle dimensioni minime degli scambi fra il nostro Paese e quello asiatico: secondo Coldiretti, la parte giapponese incide sul nostro import agroalimentare appena per lo 0,03%, per un giro d'affari di circa 13 milioni di euro. Proporzioni che appaiono ancora più piccole se si pensa che l'anno scorso dal Giappone sono partite circa 566 tonnellate di prodotti ittici, per un valore di circa 195 milardi di yen, equivalente a poco più di 1,5 miliardi di euro. E solo lo 0,4% è arrivato nei mercati europei. Il pesce, fra l'altro, non è neppure la prima merce che importiamo dal Giappone: nella classifica, stilata sempre da Coldiretti, si trova addirittura al sesto posto, dopo fiori e piante (soprattutto bonsai, per 3 milioni di euro), semi oleosi (1,6 milioni), bevande alcoliche (1,6 milioni), oli vegetali (0,9), prodotti dolciari (0,9), e appena prima del thè (0,3).

A dire il vero il ministero della Salute, Ferruccio Fazio, aveva espresso inizialmente l'intenzione di disporre questo stop totale, ma è stata la reazione di Bruxelles a definire il dietro front, soprattutto dopo che Frédéric Vincent, portavoce del commissario europeo alla Salute e alla Politica dei consumatori, aveva detto che l'Italia non si trovava neppure fra i primi cinque paesi importatori al Giappone (Germania, Olanda, Gran Bretgana, Belgio e Francia), ribadendo che «le importazioni agroalimentari della Ue dal Giappone sono irrisorie e dalla prefettura di Fukushima si esportano pochissimi prodotti di questo tipo e solo verso i vicini paesi asiatici»

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