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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2011 alle ore 08:10.

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Perché l'Italia non cresce 15 / Una micro-Piazza per gli AffariPerché l'Italia non cresce 15 / Una micro-Piazza per gli Affari

Il colpo più duro al mercato finanziario italiano è arrivato, ironia della sorte, da uno dei marchi più made in Italy del made in Italy: Prada. Il gruppo di moda noto in tutto il mondo, tanto da aver ispirato un celebre film di Hollywood, quando ha deciso di quotarsi sul mercato azionario non ha pensato alla Borsa Italiana. È andato a Hong Kong. Un po' perché Prada punta sull'Estremo Oriente, dunque quello era il trampolino di lancio giusto. Ma soprattutto perché i capitali che si possono raccogliere a Hong Kong sono difficili da trovare in Italia. E come dargli torto: Piazza Affari, nonostante i suoi 200 anni di storia, resta un listino azionario affetto da nanismo. Ha pochi investitori. E ancor meno società quotate.

Se si prendono tutte le aziende presenti sulla Borsa di Milano si arriva a una capitalizzazione pari al 28% del Pil. In confronto, la Borsa del Vietnam è un gigante: arriva al 36% del Pil. Stesso discorso per i listini dello Sri Lanka, del Perù, della Giordania, di Cipro. Persino il listino azionario di Trinidad Tobago, un palazzo di vetro nel bel mezzo del mare dei Caraibi, pesa più di quello italiano rispetto all'economia del proprio Paese. E se si guardano le obbligazioni emesse da aziende o l'attività dei fondi di private equity, il risultato è lo stesso: l'Italia sarà anche la settima economia mondiale, ma ha mercati finanziari da Terzo mondo.

Se il Belpaese fatica a crescere, se le imprese annaspano, se il Pil si muove da decenni al passo di lumaca, il motivo è anche questo. «A frenare lo sviluppo – osserva l'ex viceministro dell'Economia Roberto Pinza ed ex presidente del Comitato Piazza finanziaria – è da un lato la struttura produttiva formata da imprese medio piccole e dall'altro il debole rapporto con la finanza».

Finanza, no grazie
Il Fondo monetario stima che il Pil italiano sia a fine 2010 pari a poco più di 2mila miliardi di dollari, uguale a quello del Brasile. Peccato che a San Paolo – secondo i dati Wfe – la Borsa capitalizzi 1.500 miliardi di dollari, mentre a Milano valga appena 570. Guarda caso il Brasile è uno dei Paesi più dinamici del momento, mentre l'Italia uno dei più statici. Il mercato obbligazionario è ancora peggio. Le società italiane che hanno un rating sono appena 20. Tra queste, quasi la metà sono ex pubbliche. I bond aziendali esistenti sul mercato – secondo la banca dati di Dealogic – ammontano a 171 miliardi di dollari, pari all'8,4% del Pil. Ben distante dall'11,2% della Thailandia o dal 9,9% del Kazakhstan. Anni luce dai livelli di Usa, Gran Bretagna o Svizzera.

Un po' meglio, ma solo grazie alla crisi finanziaria, l'attività in Italia dei fondi di private equity. Prima della crisi del 2007 – calcola Lek Consulting – gli investimenti dei fondi nel nostro Paese arrivavano allo 0,33% del Pil, contro lo 0,72% della Francia e l'1,05% della Gran Bretagna. La crisi ha però tagliato le gambe all'attività dei fondi all'estero, così ora l'Italia ha recuperato posizioni. Ma c'è poco da gioire: questa fetta del mercato finanziario resta uno zero virgola del Pil. Dunque pressoché ininfluente per la crescita economica del Paese.

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