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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2011 alle ore 08:11.
C'è un evidente filo rosso che unisce le "Considerazioni finali" che il Governatore Draghi ha letto negli ultimi cinque anni. A partire da quelle del 2006, avendo Draghi iniziato il mandato alla Banca d'Italia il 16 gennaio di quell'anno. Le CF lette il 31 maggio 2006 sono per intero – diciotto pagine su venti!! – dedicate all'unica priorità che ancor oggi l'economia italiana presenta: tornare alla crescita.
Ed è questo il tema ricorrente in tutti gli anni successivi, anche quando diversi problemi ci vengono dalle crisi altrui : prima dalla crisi della finanza mondiale e poi dalla crisi della zona Euro.
Di quest'ultima - ancor oggi irrisolta - non stupisce che un anno fa Draghi ricordi che per il ritorno alla stabilità dei mercati occorre «la ripresa della crescita, poichè non va dimenticato che questa crisi è soprattutto una crisi di competitività». Ed è così intitolato - «competitività e crescita» - il successivo paragrafo dedicato l'anno scorso all'economia italiana: le utili iniziative già avviate dal Governo, ma anche le tante cose ancora necessarie (per inciso, è proprio questo il giudizio che nell'ultimo mese ci è venuto da tutti quelli che si sono occupati del nostro Paese, dall'Ocse al Fmi alle agenzie di rating).
Per avere la visione completa dei nostri problemi irrisolti - oggi come allora - è utile tornare a quanto letto nel 2006: «dalla metà degli anni '90, la produttività totale dei fattori si è ridotta, caso unico fra i paesi industrializzati».
La produttività totale - anche detta «residuo di Solow», dal nome dell'economista del Mit di Boston con cui Draghi ha studiato - ha un ruolo decisivo nella moderna teoria della crescita. La produttività può crescere in modo esogeno, come «manna dal cielo», quando ad esempio un paese rincorre e copia l'altrui innovazione. È soprattutto quanto stanno facendo i paesi emergenti. Oppure, può essere «meritata», quando deriva dagli investimenti volti a migliorare la qualità del capitale umano, la ricerca scientifica «utile» alle imprese, l'aumentata dimensione delle imprese stesse, e così via. È soprattutto questo che fanno i paesi avanzati, che vogliono restare tali e non essere superati dagli emergenti che li stanno rincorrendo.
Ciò che già allora Draghi sottolineava era che la crescita della produttività e quindi lo sviluppo economico, non potevano essere ottenuti grazie a scorciatoie. Nè di tipo monetario, con un pò più di inflazione e poi magari una svalutazione del cambio. Nè di tipo fiscale, con un pò più di spesa pubblica e magari un aumento del debito pubblico cui si può non fare onore. Un'analisi anch'essa ben chiara nella teoria della crescita e che è stata confermata da quanto abbiamo capito negli anni successivi. È negli ultimi due anni che abbiamo potuto confrontare i ben diversi risultati ottenuti dai paesi (a cominciare dalla Germania) che più hanno investito in ricerca, innovazione, e progressi nella formazione del capitale umano, con quanto invece ottenuto nei paesi che seguivano la via illusoria delle bolle immobiliari o della spesa pubblica utile solo a «comprare consenso elettorale».
Per chi voglia capire la ritrovata forza industriale della Germania rispetto alle nostre minacciate chiusure, propongo un semplice test: confrontare da un lato ciò che abbiamo fatto noi con la riforma universitaria e la ristrutturazione del CNR e ciò che hanno fatto in Germania con l'individuazione delle 16 università di eccellenza e con il potenziamento degli 80 Max Planck Institutes (fondazioni di ricerca applicata, i cui risultati sono trasferiti gratis all'industria tedesca).
Le lezioni che Draghi ci ha fatto in questi anni restano ancora indispensabili. Quando il Paese vorrà tornare a crescere, le ricette non saranno difficili da trovare. Basta che ciò sia - per un buon numero di anni - l'unica priorità di un Governo che ha a cuore solo il futuro del Paese.
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