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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2011 alle ore 08:10.

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ROMA - Per l'Istituto Bruno Leoni il referendum sulla privatizzazione dell'acqua e degli altri servizi pubblici locali non è un problema di stretta interpretazione giuridica. «I quesiti sull'acqua cambiano poco, ma peggiorano tutto», titola il Briefing Paper sugli effetti della consultazione referendaria che Ibl ha mandato ieri in stampa e che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare. Il lavoro, curato da Serena Sileoni e Carlo Stagnaro, sostiene la tesi che «gli effetti reali del referendum saranno molto più modesti rispetto agli effetti percepiti», ma che «il ridotto impatto 'tecnico' deve fare i conti con la loro ampia portata politica e regolatoria».

Ne risentiranno pesantemente «gli orientamenti del mercato finanziario e degli operatori privati del settore» portati a dare grande importanza a un eventuale esito positivo. «Da questa seconda prospettiva - dice il paper - la portata del referendum sarebbe davvero importante e produrrebbe effetti grandemente negativi». Se la ripubblicizzazione del servizio va esclusa come effetto giuridico automatico, grazie al paracadute fornito dalle direttive europee (tuttavia meno rigorose sul piano concorrenziale), nella sostanza l'effetto sarà comunque quello di un minore impegno degli operatori privati.

Il quaderno di Ibl, che al solito intende promuovere un punto di vista «autenticamente liberale e liberista», spiega nel dettaglio le ragioni che indurrebbero gli operatori finanziari e industriali ad allontanarsi dal settore. Il primo è la riduzione della pressione sugli enti locali ad «adottare criteri stringenti nelle gare», cosa che «ne farebbe strumenti di selezione relativamente meno adeguati». Il secondo disincentivo, «in combinato disposto», verrebbe invece dal referendum sulla tariffa idrica che produrrebbe «la più difficile finanziabilità degli investimenti, perché la remunerazione del capitale sarebbe lasciata alla volubilità dei comuni anziché alla relativa certezza delle tariffe». Il «disincentivo verso gli operatori strutturati» si tradurrebbe, a livello di sistema, in una «perdita di efficienza». «Questo renderebbe meno forti le pressioni verso l'efficienza nella struttura dei costi, che altrimenti potrebbero sortire effetti positivi di disciplina finanziaria sugli stessi gestori pubblici».

Le conclusioni del paper sono nette. «L'effetto del referendum non sarebbe, di per sé, la ripubblicizzazione del comparto, ma l'erosione della credibilità delle gare e la maggiore difficoltà di finanziamento. Tutto ciò non produrrebbe alcuna riduzione dei costi, anche se potrebbe determinare un abbassamento (o un minore incremento) delle tariffe». Qui però si nasconde «l'incredibile illusione fiscale» che i promotori del referendum «sembrano aver alimentato con successo: spostare un costo non equivale a cancellarlo, e l'unico modo per cancellarlo è, in generale, rinunciare all'investimento. A farne le spese sarebbe, allora, la qualità del servizio e, nelle zone non adeguatamente servite, la presenza di servizi di depurazione».

L'ultimo paradosso riguarda il Sud «poiché le zone dove le perdite sono più alte e la depurazione più insufficiente coincidono con quelle dove le finanze pubbliche si trovano in condizioni più precarie». Questo referendum - conclude l'Istituto Bruno Leoni - «si configura come un atto contro il Mezzogiorno, che condannerà una parte importante della popolazione a continuare a vivere, nel Ventunesimo secolo, preda di razionamenti e priva del rispetto degli standard ambientali più basilari».

Un approfondimento merita la questione della tariffa, se debba cioè coprire anche la remunerazione del capitale, come prevede la legge oggi, oppure no, come chiedono i referendari. «La teoria economica e l'evidenza disponibile - dice Ibl - suggeriscono che l'imputazione di tutti i costi (incluso il costo del capitale) in tariffa è preferibile». Anche in questo caso, come per le gare, spetterebbe agli enti locali, anche di fronte a una vittoria del sì, decidere se caricare il costo del capitale e la sua remunerazione nella tariffa. «Altra cosa - commenta il paper - è se il saggio di remunerazione del 7 per cento (decreto ministeriale 1 agosto 1996) sia adeguato». L'imputazione di tutti i costi è preferibile perché il cash flow futuro è «percepito più sicuro nel caso in cui dipenda dalla tariffa», rendendo più bancabili gli interventi. Da un punto di vista di efficienza economica e ambientale, inoltre, «la piena copertura dei costi tramite tariffa è coerente con il 'polluter pays principle', un principio che è riconosciuto e adottato da tutte le norme europee in materia ambientale».
G.Sa.

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