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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2011 alle ore 09:53.
L'ultima modifica è del 21 giugno 2011 alle ore 09:53.

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Un passo dopo l'altro, il quadro generale si sfilaccia. L'inchiesta sulla cosiddetta P4 è come una serie di granate che spazzano gli spalti di un castello da lungo tempo sotto assedio. L'arresto di Lele Mora non c'entra con la politica, ma è un pessimo segnale per il premier. E sull'intervento in Libia le parole del capo dello Stato sono perentorie, svelano senza pietà il gioco di prestigio della Lega. Insomma, tutto cambia in fretta.

La cornice entro cui si muovono Berlusconi e Bossi, anche dopo Pontida, coincide tuttora con il sogno di arrivare al 2013, scadenza naturale della legislatura.

Lo vuole fortemente il presidente del Consiglio e come si è visto se lo augura anche il suo vecchio alleato (non fosse altro perché non dispone di un piano B: la caduta del governo e il voto anticipato segnerebbero anche la fine dell'avventura politica del padre-fondatore del leghismo).

er arrivare a qella data i due si sostengono a vicenda, benchè in ruoli diversi, e sapendo che la Lega non può vivere senza adrenalina. Di qui il rincorrersi degli "ultimatum", veri o presunti, e l'elenco delle condizioni "irrinunciabili".

Tuttavia il 2013 è un traguardo sempre più lontano: più che a una speranza, assomiglia a un'illusione. In altri tempi sarebbe bastata la volontà dei due leader per chiudere la partita. Oggi è tutto molto più complicato. Sul pratone di Pontida si è visto un partito alla ricerca confusa della sua identità. Al punto da rispolverare quel grido improvviso («secessione») che ha sorpreso Bossi. E si capisce: il termine evoca un passato che il leader ha abbandonato da tempo, anche perché non saprebbe come gestire, nelle sue condizioni di salute, una nuova fase «rivoluzionaria» (peraltro fuori tempo massimo).

Oggi dire «secessione» per un leghista significa battere sul tasto dell'isolazionismo, cioè dell'estrema identità. La Padania ai padani, si potrebbe dire. E come negli Stati Uniti la destra isolazionista vuol togliere al governo di Obama i finanziamenti per l'intervento in Libia, così il Carroccio chiede il ritiro italiano dalla missione militare della Nato. Stabilendo un legame di causa ed effetto fra la guerra e le ondate di profughi che arrivano sulle coste italiane. Ma cosa è disposta a mettere sul tavolo la Lega per ottenere il risultato?

A parole si tratta di una priorità assoluta. Nella sostanza è più realistico quello che il ministro Maroni ha detto ieri in un dibattito con Bersani: «È la nostra richiesta: stabilire quando finirà l'impegno militare. Discutiamone laicamente, il Parlamento è sovrano».

Maroni si trova a gestire la linea leghista su un punto delicato. Molto più delicato del grottesco braccio di ferro sui ministeri al Nord, che nemmeno i leghisti riescono a prendere sul serio. Invece sulla Libia bisogna stare attenti a come ci si muove. Il presidente della Repubblica, che pure non ha mai assunto posizioni rigide verso la Lega (lo ha riconosciuto Bossi ancora domenica), ha ricordato gli impegni internazionali che l'Italia ha sottoscritto. E lo ha fatto proprio con l'attuale governo. Sulla politica estera, è il sottinteso, non si scherza. E poi, altro sottinteso, se si vuole cambiare parere, occorre farlo alla luce del sole, discutendone in Parlamento.

In altri termini, attenzione al populismo. Il che vale anche per un altro tema su cui si rischia una demagogia pericolosa: la questione dei clandestini e del loro «respingimento» in mare. Il ministro dell'Interno, che dopo Pontida vede crescere il suo ruolo, sa di muoversi lungo un sentiero stretto. Ma naturalmente ci sarebbe lo spazio per individuare un compromesso, sia sui profughi sia sui bombardamenti in Libia. Allo stato delle cose e in base alle intese, l'impegno italiano dovrebbe esaurirsi in settembre. A quel punto si vedrà. In autunno molti nodi verranno al pettine: in tutti i campi d'azione del governo.

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