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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2012 alle ore 09:33.
L'ultima modifica è del 08 marzo 2012 alle ore 09:33.

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La Holland House Library di Londra distrutta dai bombardamenti aerei nel 1940 (Corbis)La Holland House Library di Londra distrutta dai bombardamenti aerei nel 1940 (Corbis)

Quando si discute della dimensione economica della cultura è necessario abbandonare la tradizionale contrapposizione tra cultura alta e bassa, d'élite e popolare. Coloro che vogliono a tutti i costi mantenere quest'ottica spiegano che la cultura di massa è tutto ciò che è profittevole per il mercato, e che dunque non ha bisogno di fondi pubblici. Le sovvenzioni sono necessarie solo per mantenere ciò che è antico (come la musica di Mozart, quello che resta del Colosseo e del cenacolo vinciano) o ciò che è incomprensibile e avanguardistico quale la musica di John Cage, Finnegan's Wake di James Joyce, o il cinema sperimentale. In altre parole, le sovvenzioni devono orientarsi verso la cultura d'élite che, a causa del cattivo gusto delle masse, crollerebbe e, con essa, tutta la civiltà.
Questa difesa dell'intervento pubblico sulla cultura è allettante, soprattutto quando i fautori sono gli stessi membri dell'élite culturale. Vorrebbe dire che il gusto di coloro che stanno meglio (spesso sia finanziariamente che culturalmente) dovrebbe essere sovvenzionato dalle tasse di coloro che sono più poveri, che non leggono Kafka, non vanno all'opera e non hanno la più pallida idea di chi sia Schoenberg.

Chi difende queste posizioni considera la cultura come un bene di lusso, qualcosa che deve essere protetto negli anni delle vacche grasse e da tagliare quando, invece, si passa, inevitabilmente, a quelli delle vacche magre. Molti, sia da una posizione che si potrebbe classificare di filisteismo reazionario, sia da quella che potremmo definire di populismo progressista, avvertono che nei prossimi anni qualcosa deve essere sacrificato perche “la crescita economica” lo esige. Che dire? Queste sono posizioni da XIX secolo quando si pensava, come molti oggi ancora pensano, che la crescita economica significa produrre roba: che si tocca, che si annusa, che si mangia o che comunque ci si porta a casa, che piace agli stranieri che la comprano sistemando così la nostra bilancia dei pagamenti. Nell'era post-industriale quando il grosso della produzione manuffaturiera si è spostata e continuerà a spostarsi verso quello che abbiamo a lungo chiamato il Terzo Mondo, l'Occidente deve sviluppare un modello economico al cui centro ci sia l'industria culturale nel senso più allargato della parola: Kafka e Schoenberg, sì, ma anche i computer games, la pop music, i programmi televisivi, la gastronomia. Come al solito sono stati gli Stati Uniti ad indicarci la via. Infatti noi, in realtà, comperiamo pochi manufatti americani e ne abbiamo sempre comperati pochi. Non abbiamo comperato le loro automobili, né i loro frigoriferi o le loro radio. Non comperiamo neppure i loro computer che sono fabbricati in Cina, Brazile e Messico. Comperiamo invece le loro idee: i programmi di Microsoft e di Apple, apparteniamo a Facebook, guardiamo YouTube e senza Google non sapremo come o cosa fare. Comperiamo i loro programmi televisivi, non le loro televisioni. E da dove vengono queste idee? Esse provengono dalle loro numerosi università, da un formidabile investimento (in proporzione il più elevato del mondo) nel settore dell'istruzione superiore. Il primo ministro britannico, David Cameron, che ritiene di essere pro-capitalista, non afferra questo concetto perché taglia il budget per le università . Una volta lo Stato investiva in strade, ponti, ferrovie, al fine di creare le condizioni dell'industrializzazione. Oggi invece deve investire nella formazione.

Prendiamo il caso della Svezia e la musica pop. Prima dell'avvento degli Abba nessuno prendeva sul serio la musica popolare scandinava. I soli che avrebbero potuto contenere l'avanzata della musica anglo-americana, si diceva, erano i paesi con una grande tradizione di canzoni, quali l'Italia e la Francia. Eppure tra il 1974 e il 2002 il mercato per l'export della musica pop svedese era, in termini assoluti, più grande di tutto il mercato russo. Come mai? Dagli anni settanta e ottanta i programmi scolastici per l'educazione musicale dei giovani svedesi avevano fornito alle nuove generazioni di scolari l'abilità di suonare uno strumento musicale, sedi adeguate per fare musica e strumenti musicali a prezzi accessibili. Questo sviluppo dell'infrastruttura culturale fece si che i proventi delle esportazioni di musica in svezia erano notevolmente superiori (in proporzione al numero degli abitanti) a quelli della Gran Bretagna. In un paese come l'Italia con una notevole tradizione musicale (storicamente più significativa a livello internazionale di quella del Regno Unito almeno fino agli anni sessanta), è straordinario che l'educazione musicale nelle scuole rimanga così indietro a quella di paesi con una tradizione musicale minore. Prendiamo un altro settore, quello delle arti dello spettacolo. Nel solo Regno Unito ci sono 100mila persone che lavorano in questo settore, il che non deve sorprendere dato che il settore chiamato ‘creative industry' impiega due milioni (mentre l'intero settore manufatturiero ne impiega 2,5 milioni). Questo settore, secondo uno studio del 2010, contribuisce ogni anno 44mila sterline a testa all'economia britannica, mentre la media per il paese intero è di 31,500. L'esistenza e la crescita di questo settore dipendono in gran parte dalle strutture scolastiche disponibili. La confindustria britannica, la Cbi, ne è pienamente consapevole e, a parole, anche il governo. Ma lasciare che di questo se ne occupi solo il settore privato, vuole dire non capire quanto il privato dipenda dal pubblico e vice versa.

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