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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2012 alle ore 15:08.

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La cronaca dell'udienza
Balbetta, tentenna, s'arruffa, sospira. Le parole gli escono soffiate dalla bocca: "Mi sono sempre assunto la responsabilità di quanto è stato fatto e sono consapevole della gravità dei danni che i creditori e soprattutto gli obbligazionisti hanno subito. Sono consapevole che la corte saprà tenere conto di ciò anche in conseguenza delle mie gravi condizioni di salute e del fatto che porterò un peso indelebile per le sofferenze causate a quanti per colpa mia hanno subito danni".

Potrebbe sembrare l'ultima, definitiva, ammissione di responsabilità di un moribondo fatta a un confessore in un letto d'ospedale: è l'ammissione di responsabilità fatta non a un sacerdote clemente ma ai magistrati della Corte d'Appello di Bologna da Calisto Tanzi. Di quello che resta dell'ex cavaliere del lavoro, dell'uomo potente, spavaldo, spregiudicato e grasso che riuscì a mettere in piedi un colosso dai piedi d'argilla franato sulle teste di migliaia di piccoli investitori che nei Bond Parmalat avevano creduto. Ha perso 30 chili Tanzi, trema e suda, si tocca con le mani sottili il sondino nasogatsrico con cui è alimentato. E' un'ombra, uno scheletro che va sorretto dalle guardie carcerarie, uno scheletro in cui gli occhi chiari sono rivestiti da una patina opaca. E grigio: tutto in Tanzi è grigio, salvo le occhiaie, nere, scavate nelle orbite. Occhiaie da malato, malato grave.

Ormai è un personaggio di Eschilo: Ubris, Ate e Nemesi si sono compiute senza pietà nella vita di quest'uomo che a 73 anni ne dimostra 93 stretto in un giaccone blu, di lana, in un giorno caldo di primavera.
Il peccato originale, la colpa per cui oggi era seduto tra i suoi avvocati davanti ai magistrati bolognesi, la sua Ubris, è il crac di un'azienda sana, quella del latte e degli yogurt con cui mezza Italia ha allevato schiere di bambini. Quella stessa azienda che aveva i conti in rosso eppure continuava ad attrarre investitori, con quei Bond drogati che hanno rovinato la vita di quelle stesse famiglie che avevano imboccato i figli a cucchiaiate di yogurt. Se quello era sano, perché non dovevano esserlo anche i prodotti finanziari dello stesso marchio? Non lo erano, e Tanzi che continua ad ammettere la sua colpa, lo sapeva. Ate.

Ma, Eschilo impietoso continua nella sequenza tragica, arrivò Ate, l'incapacità di distinguere tra ciò che giusto e ciò che non lo è: "Mi pento dello stato di esaltazione che all'epoca – conclude la sua dichiarazione spontanea Tanzi - non mi ha fatto comprendere che celando le reali condizioni del gruppo non sarei uscito dal tunnel dei debiti e dalla spirale dei reati che per tanto tempo andavo compiendo". L'esaltazione oscura la capacità di giudizio, oggi Tanzi lo sa, ieri era refrattario, immune ad ogni scrupolo.

Seduto, curvo, pallido e smagrito tra i suoi legali, ora l'ex cavaliere del lavoro, sconta la sua feroce Nemesi: la punizione.
Chiede pietà alla Corte, chiede gli arresti domiciliari "Sono molto malato", dice. La punizione di un uomo grasso di orgoglio e di cibo, di denaro e di potere ridotto a uno scheletro tremolante che supplica clemenza. Si assume le sue responsabilità, fa atto di contrizione. E spera che tra pentimento e malattia la pietà impetrata arrivi a regalargli una fine di pace, a casa tra i figli. Eschilo non concedeva speranza e riscatto ai suoi eroi. Il 15 maggio, quando il tribunale di Sorveglianza deciderà se accogliere o meno l'istanza per gli arresti domiciliari presentata dai legali di Tanzi, questo vecchio stanco saprà se la fine della sua storia l'avrà scritta l'impietoso Eschilo o il più conciliante Euripide. Intanto, ricaricato in ambulanza, torna a Parma, in ospedale. Un corpo esile, leggerissimo, che custodisce una colpa pesante.

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