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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2012 alle ore 06:36.

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Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank, JpMorgan Chase, Citigroup, Ubs, Credit Suisse, Bank of Tokyo-Mitsubishi Ufj, Hsbc, Mizuho Financial, Rabobank, Société Générale, Sumitomo Mitsui, oltre naturalmente a Barclays. Nel lungo elenco di istituti finanziari messi nel corso degli ultimi mesi nel mirino dalle diverse authority di controllo per sospetta manipolazione del tasso Libor non troverete nomi di casa nostra, e neppure spagnoli.

«C'è un'indagine che non riguarda assolutamente le banche italiane: accerteranno se ci sono stati degli errori e se gli stessi sono dolosi o colposi», ha confermato ieri il presidente dell'Abi, Giuseppe Mussari. E il motivo non è legato soltanto al fatto che queste non compaiano nella lista di coloro che giornalmente contribuiscono a determinare il tasso interbancario calcolato dalla British Banking Association, ma soprattutto al differente modello di business su cui si basano le banche «mediterranee», per così dire, e quelle più di stampo anglo-americano.

Quando da una parte (Italia e anche Spagna) troviamo istituti di credito che si sono sviluppati attorno al concetto di «banca commerciale», cioè basata essenzialmente sulla raccolta e sul reimpiego del denaro nei confronti della clientela, e dall'altra (altrove, in Europa e negli Usa) una serie di soggetti che trae invece la grande maggioranza di ricavi e utili dalle attività strettamente finanziarie, lo squilibrio è evidente. Ed è anche altrettanto comprensibile come a destare i sospetti siano questi ultimi, che da una pur minima variazione dei tassi possono trarre vantaggi enormi.

Del resto, se è vero che il Libor condiziona almeno una parte dei contratti derivati (quelli stipulati sui tassi) non si può fare a meno di notare le differenze che intercorrono sotto questo aspetto fra le diverse realtà. Una recente analisi di R&S-Mediobanca rileva infatti che la stessa Barclays, per esempio, a fine 2011 aveva in pancia derivati per 645 miliardi di euro, pari al 34,5% dell'attivo. Come lei erano esposte Ubs (34,3%), Credit Suisse (33,2%) e Rbs (35,1%), mentre Deutsche Bank sfiorava addirittura il 40 per cento. Simile il livello negli Stati Uniti, dove il problema è aggravato però dal fatto che l'intero mercato dei derivati, secondo i dati appena pubblicati dall'Office of the Comptroller of the Currency (Occ), è di fatto concentrato (93,2%) fra quattro banche: Jp Morgan, Citibank, Bank of America e Goldman Sachs.

Intesa Sanpaolo e UniCredit, invece, avevano esposizioni decisamente più contenute (rispettivamente 8,1% e 12,7%), dati confermati anche dallo spaccato a livello nazionale: i derivati delle banche italiane valgono il 10,7% del Pil del Paese, quelli delle spagnole il 15,3% a fronte di incidenze ben più elevate per Germania (38,4%), Stati Uniti (37,5%) Francia (55,3%), Regno Unito (106,2%) e soprattutto Svizzera (254,1%). I numeri riflettono ovviamente il diverso modello su cui si basano le attività delle nostre banche, più prudenziale, e in parte anche lo stretto controllo e alla «moral suasion» esercitata dalla Banca d'Italia negli ultimi anni: atteggiamenti che nel complesso hanno evitato agli istituti italiani la deriva che si è invece vista altrove nelle fasi più critiche, ma che paradossalmente rischiano di rivelarsi un boomerang.

Anche perché chi è intervenuto a livello regolamentare dopo il crack di Lehman Brothers (Basilea 3 e anche Eba) non ha fatto altro che allargare la forbice fra le due tipologie di banche: «I vincoli di liquidità e quelli di patrimonializzazione richiesti – conferma Gabriele Benedetto, senior manager di Value Partners – hanno di fatto finito per penalizzare più gli istituti finanziari che aiutano l'economia reale rispetto a quelli che invece si concentrano sulla finanza strutturata, condizionati in fondo soltanto dai criteri sulla leva».

Lo scandalo che si cela dietro al Libor, insomma, può rappresentare un segnale evidente di quanto certe banche siano state abili (e forse spregiudicate) nell'insinuarsi nelle maglie larghe lasciate dalla regolamentazione. E soprattutto di quanto le conseguenze, come spesso avviene, finiranno per ricadere su chi invece continua a mantenere un atteggiamento più prudente.

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