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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2013 alle ore 13:48.

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Le imprese ebraiche
Negli anni presi in considerazione dai lavori della Commissione (1938-1945), in Italia la comunità ebraica dell'epoca conta circa 40mila persone a fronte di una popolazione complessiva di 40 milioni di persone: lo 0,1% del totale. E sulla base dei dati raccolti dall'occhio indagatore del regime risulta che i cittadini ebrei titolari di attività economiche sono 4.298, pari al 10,74% della comunità. I numeri rivelano una doppia verità. Da un lato l'impatto pesante dei provvedimenti e delle confische sulla popolazione ebraica. Dall'altro il peso molto relativo sull'economia italiana nel suo complesso.
Il primo aspetto è sottolineato dal Rapporto della Commissione: «Il dato fornisce da solo la prova di quanta rilevanza le persecuzioni razziali abbiano avuto, anche nel settore economico, a detrimento dei soggetti imprenditori ebrei, sia a titolo di danno emergente, relativo alle ablazioni dei beni costituenti l'azienda, sia a titolo di lucro cessante per i mancati guadagni determinati dall'impossibilità di proseguire l'attività economica».
Il secondo aspetto, che anche in questo caso sfata un odioso luogo comune, viene sempre evidenziato dal Rapporto, per il quale i provvedimenti non trovano giustificazione nella supposta «forte influeanza dell'elemento ebraico nella vita economica». E Michele Sarfatti, storico e direttore del Cdec, in un precedente articolo del Sole 24 Ore sottolinea: «Il peso degli ebrei nell'economia italiana era molto basso».

Vietato tutto
Un'ampia parte dei lavori della Commissione è dedicata ai divieti introdotti con le leggi razziali e alle procedure per censire e quindi depredare le attività gestite da ebrei.
L'articolo 10 del decreto 17 novembre 1938, n. 1728, non consente, ad esempio, essere proprietari o gestori, di aziende dichiarate interessanti la difesa della nazione, e di aziende di qualunque natura con 100 o più dipendenti. Vietato anche ricoprire le cariche di direttore, amministratore o sindaco. Viene introdotto, inoltre, l'obbligo di denunciare le attività industriali o commerciali di cui si è titolari o gestori. Il regime, bontà sua, esclude dall'obbligo di denuncia le attività artigianali iscritte alla Federazione nazionale fascista degli artigiani. Non per altro: perché di fatto sono già censite.
La sorte delle aziende è semplice e lineare: il ministero delle Finanze nomina un commissario di vigilanza, si procede all'inventario e alla liquidazione, con la cessione da parte dei titolari a soggetti non ebrei, previa autorizzazione.
Al rigore non sfugge nessuno. Neppure gli ambulanti. Il divieto relativo a questo tipo di commercio compare nell'estate del 1940. Ma già prima, nel mese di marzo, come racconta il Rapporto, si vieta "il rilascio o il rinnovo delle licenze per il commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toletta ad uso personale". E con successive estensioni si giunge "al divieto totale con il ritiro delle licenze ai venditori ambulanti, colpendo solo a Roma circa 800 titolari. Alla fine dell'anno fu stabilita una proroga di 3 mesi per consentire di liquidare la merce agli ambulanti con famiglia a carico".

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