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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2013 alle ore 08:09.
L'ultima modifica è del 10 aprile 2013 alle ore 08:50.

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Il discorso sul metodo. Non quello di Cartesio, bensì quello di Bersani. Molto meno limpido del primo per l'opinione pubblica che vede trascorrere mestamente i giorni: senza governo e finora senza un nome certo per il Quirinale. Sotto questo aspetto il fatidico colloquio con Berlusconi non ha dato risultati definiti. È stato appunto interlocutorio e non poteva essere altrimenti. Un'analisi circa il metodo utile a eleggere in modo condiviso il capo dello Stato. Qualcosa su cui è difficile non essere d'accordo, ma poi servono i fatti.

I fatti per adesso sono che Bersani ha ripreso una parvenza d'iniziativa. Appariva chiuso in un angolo. Alle prese con un malessere interno al Pd che senza dubbio esiste, ma la cui unica cura consiste nel muoversi con dinamismo e una certa lungimiranza lungo la rotta del Quirinale. A un mese e mezzo dal risultato del voto è dura per il comune cittadino, per l'imprenditore e il lavoratore accettare come ineluttabile la mancanza di un esecutivo e persino di un'idea chiara sul capo dello Stato.

Inutile a questo punto caricare di significati eccessivi un colloquio che appartiene alle normali procedure istituzionali. E la cui lettura «politica» dipende dall'interesse di ciascuna parte. A Bersani serviva soprattutto rompere il ghiaccio, mostrarsi come colui che tesse il filo del negoziato (vero o apparente) in qualità di leader di maggioranza e naturalmente escludere il nesso diretto fra elezione del capo dello Stato e successiva formazione di una maggioranza parlamentare. E infatti dopo aver visto Berlusconi si è affrettato a precisare: «No al governissimo». Che nessuno coltivi strane idee nel centrosinistra: incontrare l'avversario storico non vuol dire prepararsi a condividere una piattaforma di governo.

Quanto a Berlusconi, l'incontro gli è servito più che altro per dimostrarsi razionale e conciliante. La linea "istituzionale" inaugurata da qualche settimana passa anche di qui. Del resto Berlusconi è il fautore della «grande coalizione» in stile tedesco e poco importa se pochi credono, forse nemmeno lui, alla reale praticabilità di un simile patto. La rotta politica del centrodestra sull'asse Quirinale-governo è chiara. E in fondo il consiglio venuto da Napolitano, quando ha evocato il «coraggio» di Dc e Pci nel 1976, può essere utile in questa fase più a Berlusconi che a Bersani. Perché suggerisce il modo per dare un governo al paese senza tradire lo spirito delle «larghe intese», ma senza legarsi le mani invocando il famoso «governissimo» che risulta irrealistico.

Il problema è cosa ottiene Berlusconi da un eventuale patto con il Pd. Vediamo. In primo luogo l'ex premier può ottenere di eleggere in condominio un presidente della Repubblica «garantista» nei suoi confronti come lo è stato Napolitano. Non è poco. Da questi non potrebbe attendersi, come è ovvio, alcuna forzatura costituzionale, ma si sentirebbe tutelato da una figura di equilibrio.

In secondo luogo, Berlusconi sarebbe coinvolto nel processo di rinnovamento costituzionale che tutti si augurano possibile. Bersani è prodigo di promesse al riguardo. Ma qui c'è un nodo da sciogliere. Il «cambiamento» più volte citato da Bersani non può consistere in un gioco di parole. O magari in un governo malfermo sulle gambe, benché guidato dal leader del Pd. La garanzia sarebbe data invece da un vero patto sulle riforme. Con il Pdl e con tutte le forze parlamentari che vi si riconoscono. E il cambiamento deve comportare una riforma della legge elettorale, certo, accompagnata però da una revisione della Costituzione tale da rinforzare i poteri del capo dello Stato, fino a consentirne l'elezione popolare diretta. I tempi sono maturi, anche perché sarebbe questa la strada più lineare per avere il doppio turno elettorale come in Francia.

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