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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2013 alle ore 18:24.

Tutto incomincia nel 1985 (primo ministro Shimon Peres) con il programma di stabilizzazione economica che trasforma Israele da Stato del welfare socialdemocratico in neo-liberale. Prosegue con la rivoluzione tecnologica delle Forze armate (Shimon Peres); con la Perestroika che permette a migliaia di scienziati, matematici, inventori russi di emigrare in Israele: il passaggio dal bagaglio teorico della loro educazione sovietica a quello applicativo e commerciale ha richiesto forse cinque anni, non una generazione. Poi c'è stato il dividendo della pace di Oslo: nel 1973 le spese militari erano il 35% del Pil, a partire dagli anni 90 scendono al 9. In maniera totalmente bipartisan, i Governi assemblano il valore aggiunto di tutti questi avvenimenti politici e investono nei nuovi incubatori. A partire dal decennio scorso gli incubatori passano interamente ai privati. La nuova frontiera delle start-up ora è la ricerca nella neuro-biotecnologia.
Senza lo Stato, tecnologia e start up non avrebbero avuto queste dimensioni. «Israele è piccolo e non è uno Stato federale: per Gerusalemme è più facile determinare quel che accade a Tel Aviv», spiega Avi Hasson, responsabile dell'ufficio del Chief Scientist del ministero dell'Industria. Hasson è il regolatore del mondo delle start up e dei suoi finanziamenti: controlla i 25 incubatori del Paese, garantisce le infrastrutture e molto denaro. «Noi non diamo soldi alle imprese ma ai progetti di ricerca», precisa Hasson, 46 anni, venti dei quali da venture capitalist privato, triennio di leva nello Shmoneh-Matayim. È l'Unità 8200 dove i giovani geni del Paese passano i tre anni di leva obbligatoria a inventare cose. Prima della pillola con la nanocamera per indagare nell'intestino, il suo creatore aveva concepito la microcamera sulla punta delle bombe sganciate dall'aviazione.
Fissate le regole, ogni università, ogni incubatore è libero di fare ricerca e raccogliere fondi. Anzi, ha il dovere di farlo. Get Taxi è incominciato con un app e ora non è solo più semplice chiamare da un cellulare un'auto pubblica in tutto Israele, 200 black cabs se sei a Londra e 200 taxi a San Pietroburgo. È nata una filosofia: «È più facile e meno dispendioso andare da un punto A a un punto B, riduce il traffico, è tutto più ecologico», dice Nimrod May, Global VP marketing di Get Taxi. Ma quando Dov Lautman di Delta, capitano storico dell'industria tradizionale, stabilisce che «prima della stoffa c'è il corpo» e vende 300 milioni di canotte e mutande nel mondo dopo un processo produttivo di 18 gradi d'innovazione, anche la grande manifattura gode delle ricadute delle start-up.
Quando Rafi Gidron attraversa la lobby del David Intercon la gente si volta a guardare, qualcuno si avvicina per stringergli la mano. Secondo la similitudine start up/kibbutz, Rafi per Israele è un Moshe Dayan del XXI secolo. Fra le tante, nel 1997 ha creato una start up chiamata Chromatis che nel 2000 Lucent ha comprato per 4,7 miliardi di dollari: la più grande acquisizione della storia d'Israele.
Vent'anni fa, quando è iniziata l'avventura israeliana delle start up, «un ingegnere di Tel Aviv guadagnava un quinto del salario di un americano», spiega Eyal Reshef, fondatore di Israel Media Mobile Association. «Ora non è più così: costa il 110% in più». È un segno di benessere, di maturità. E l'avviso che bisogna inventare qualcos'altro di nuovo, vincere altri Nobel per soddisfare gli investitori e continuare a far felici le mamme d'Israele.
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