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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2013 alle ore 18:24.

TEL AVIV - «In Israele ci sono troppe buone idee: il problema è capire quali sono utili», quelle cioè che servono alla gente e al mercato e fanno guadagnare. A dispetto dei suoi 28 anni, Yoav Oz di Star-Tau, fisico da Navy Seals israeliani con i quali ha effettivamente prestato servizio di leva, insegna a chi ha quelle idee a farne un business. A trasformare un'intuizione in un'impresa.
Delle 20 domande di ammissione che ogni giorno riceve da quando ha aperto i battenti cinque mesi fa, Star-Tau ha selezionato 32 idee meritevoli di diventare una start up. Questo stesso centro di educazione all'impresa creato da un gruppo di studenti all'ombra della Tau, l'Università di Tel Aviv, è una nuova impresa. La Tau aveva dato loro 1.500 dollari e oggi muovono un capitale da un milione.
Quando trova il suo terreno naturale, una start up è un cromosoma culturale ed economico in continua mutazione. Secondo lo start up Ecosystem Report 2012 nessun luogo al mondo dopo la Silicon Valley gli è più congeniale di Tel Aviv. Seguono Los Angeles, Seattle, New York, Boston e Londra. Per essere precisi, più di Tel Aviv, il quartiere Nord orientale di Ramat Hahayal. L'universo israeliano dell'hi-tech e dei media digitali lo ha sviluppato in questo quindicennio semplicemente perché nel folle mercato immobiliare della città, i prezzi erano i più bassi. E per la vicinanza all'Università: della fenomenale impresa israeliana delle start up, i 57 college e le otto università del Paese sono un approdo fondamentale.
È più complesso spiegare perché in Israele è accaduto tutto questo. Perché in un Paese di 7,8 milioni di abitanti, con qualche serio problema geopolitico alle porte, operino 5mila start up: alcune muoiono, molte diventano imprese consolidate, altre sono acquistate da stranieri. «Dopo 24 mesi una start up deve incominciare a prendere i soldi dal mercato», dice Ziv Min-Dieli di The Time, uno dei 25 incubatori privati del Paese: in questo crescono 40 start up e 400 sperano di entrare. Ma ogni anno ne nascono di nuove: 546 nel 2011, 575 l'anno scorso. Un programma statale iniziato un ventennio fa con 100mila dollari ha creato un'industria da quattro miliardi. «Un master plan non è mai esistito», spiega Benny Zeevi, co-presidente di Israel Advanced Technology Industries, una piattaforma delle start up. «In un certo senso eravamo come Cristoforo Colombo: era partito con una mappa sbagliata eppure ha scoperto l'America».
Ma se negli Usa e in Europa le start-up sono genio e iniziativa privati con il corollario di amministrazioni locali lungimiranti, in Israele è molto di più. È l'impresa collettiva che definisce una nazione. Come i kibbutz 65 anni fa. Le start up sono il kibbutz tecnologico del XXI secolo. Per spiegarne il senso, il miliardario Yossi Vardi usa la parabola della "madre ebrea": «La tecnologia è ovunque. Ma in Israele tutti i figli sanno che la mamma dirà loro: con tutto quello che ho fatto per te, è troppo chiederti almeno un Nobel?». Negli ultimi dieci anni Israele ne ha prodotti sei: le mamme dovrebbero essere soddisfatte.
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