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Questo articolo è stato pubblicato il 01 novembre 2013 alle ore 18:45.
L'ultima modifica è del 05 novembre 2013 alle ore 22:48.

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(Ansa)(Ansa)

Resterà deluso chi sperava di trovare nel verbale desecretato di Carmine Schiavone i misteri inconfessabili della sciagurata stagione in cui sono state avvelenate, coi rifiuti tossici, le province di Napoli e Caserta. Non c'è traccia degli accordi sottobanco tra politica, imprese e camorra ma c'è, invece, la ricostruzione esecutiva di un modello criminale che, fa venire i brividi dirlo ma è così, ha fatto scuola nel resto d'Italia.

Il resoconto dell'audizione del pentito casalese davanti alla commisione d'inchiesta parlamentare sui rifiuti, risalente al 7 ottobre 1997 ma reso pubblico solo ieri su decisione dell'ufficio di presidenza della Camera dei deputati, conferma insomma che non c'è stato alcun tentativo di insabbiamento dello scandalo e che, da quasi due decenni, il tema è all'attenzione degli organi giudiziari. I risultati raggiunti sono pochini, è vero, ma questo è da imputare probabilmente più a una carenza di strumenti legislativi adeguati che a una presunta incapacità dello Stato di far fronte all'emergenza.

In una cinquantina di pagine, Schiavone spiega con dovizia di dettagli com'è che l'industria dell'ambiente è improvvisamente entrata nell'orizzonte criminale dei Casalesi e grazie a quali personaggi si è affermata come una delle più ricche del bilancio della camorra spa. Vaticinando pure una catastrofe sanitaria.

La cresta del boss. Il pentito racconta che, in origine, furono i boss Francesco Schiavone Sandokan e Francesco Bidognetti a gestire direttamente il traffico di rifiuti a Caserta, trattandolo come affare privato, personale. E trattenendo la quasi totalità del fiume di denaro che il nuovo affare aveva iniziato a garantire alla cosca. "All'epoca – si legge nel verbale – tenevo ancora il relativo registro (la cassa del clan, ndr) in cui figurava che per l'immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600/700 milioni al mese". In totale, secondo Schiavone, le casse dell'organizzazione si sarebbero riempite di circa 3 miliardi. Poco, troppo poco. Tant'è che, ammette: "C'è qualche latitante che ha ancora le valigie piene di soldi, le ho viste io stesso; sono soldi fatti con i rifiuti e con altre attività, di nascosto".

I fanghi nucleari. Nelle discariche della camorra ci finiva di tutto. "Dalla Germania arrivavano camion che trasportavano fanghi nuclerari", dice Schiavone. Ma non solo. "Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture". I camion "venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano". A procacciare i fornitori erano manager in doppiopetto che si muovevano in Lombardia, soprattutto, ben introdotti in "circoli culturali" che servivano come copertura per spregiudicate operazioni finanziarie e imprenditoriali. "So che a Milano c'erano delle grosse società che raccoglievan rifiuti, anche dall'estero, rifiuti che poi venivano smaltiti al Sud".

Le tombe imbottite. Tutto finiva nelle viscere della terra. Per nascondere i rifiuti, i "tecnici" del clan scavavano da un minimo di "un metro e mezzo" a un massimo di "30-40 metri", utilizzando anche le vasche ittiche e i laghi. Era un sistema che conveniva a tutti, pure alle discariche autorizzate che se ne servivano senza troppi scrupoli. Affidare i rifiuti ai camorristi consentiva agli imprenditori (apparentemente) puliti di guadagnare due volte: incassando dalle Amministrazioni comunali più di quanto pagato alla cosca e allungando la vita delle discariche autorizzate che si riempivano a un ritmo assolutamente inferiore rispetto a quello che sarebbe stato logico attendersi. D'altronde, i costi di questo genere di operazioni erano tutt'altro che proibitivi: i titolari delle ditte "pagavano 500mila lire a fusto" alla camorra a fronte dei "2 milioni e mezzo" che sarebbero stati necessari.

Il Mezzogiorno contaminato. Rapidi accenni, Schiavone, li riserva anche alle altre regioni meridionali dove la criminalità organizzata avrebbe allestito simili traffici. "Il sistema era unico, dalla Sicilia alla Campania. Anche in Calabria era lo stesso: non è che lì rifiutassero i soldi. Che poteva importargli, a loro, se la gente moriva o non moriva? L'essenziale era il business". Il collaboratore di giustizia è più specifico: "So per esperienza che, fino al 1991, per la zona del Sud, fino alle Puglie, era tutta infettata da rifiuti tossici provenienti da tutta Europa e non solo dall'Italia". E, più in particolare, questo sistema sarebbe stato adottato "nel Salento, ma sentivo anche parlare delle province di Bari e di Foggia".

La nave dei veleni. I ricordi di Schiavone, nel 1997, sono tutt'altro che nitidi. Tant'è che, spesso, alle domande più ficcanti dei commissari il pentito si difende richiamandosi al tempo che passa. "So che c'erano navi e che qualcuna è stata affondata nel Mediterraneo […] Ricordo che una volta si parlò di una nave che portava rifiuti speciali e tossici, scorie nucleari, che venne affondata sulle coste tra la Calabria e la Campania".

L'ombra della massoneria. L'audizione venne secretata perché, in contemporanea, erano in corso indagini da parte della Procura di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli e non, come pure erroneamente è stato detto in questi mesi, perché fosse stato opposto il segreto di Stato. Anzi, il contenuto delle dichiarazioni di Schiavone si ritrova, pari pari, in alcune delle inchieste sul business delle ecomafie condotte dalla Dda partenopea.

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