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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 06:35.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 14:15.

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La crisi ha strappato il velo delle ambiguità e delle ipocrisie europee, facendo non a caso riaffiorare ferite della storia che si credevano cicatrizzate proprio grazie al successo dell'integrazione post-bellica. Sulla piazza Syntagma ad Atene si sono viste bruciare bandiere naziste. Sulla "Bildt" tedesca titoli cubitali invitavano i greci a vendere Rodi e le isole per fare cassa. Europa?
Europa sì, la vecchia Europa dei ciechi nazionalismi, dei turpi egoismi che sfociarono in tre guerre civili. Mentre si consumava il divorzio dai suoi cittadini, l'Europa ha continuato a funzionare uguale a se stessa. Meglio, quasi uguale. Il quinquennio di crisi ha infatti accelerato l'indebolimento delle istituzioni comunitarie, garanti del rispetto dei Trattati Ue oltre che naturale luogo di mediazione tra i molteplici interessi dei Paesi membri. Istituzioni comuni più fragili, metodo intergovernativo all'arrembaggio. Unione più frammentata, meno coesa paradossalmente proprio quando cerca più convergenza per uscire dalla crisi.

Questo consesso più intergovernativo, dove ovviamente vige la legge del più forte, usa l'Europa come l'idiota del villaggio, l'alibi per vendere decisioni impopolari ai propri cittadini, dipingendola come un'eurocrazia stupida, arrogante, troppo invadente. Tacendo sul fatto che quell'eurocrazia si limita a usare i poteri che le sono affidati dai governi e dai Trattati, scritti da quegli stessi governi, ratificati dai loro parlamenti.
Allora Malaeuropa o malgoverni, mala-comunicazione e mala-informazione?
C'è una diffusa ignoranza in Europa sull'Europa, su che cosa fa davvero e perché. Nessuno, per esempio, ha spiegato ai cittadini che cosa significavano le riforme che hanno rafforzato il patto di stabilità, i poteri più intrusivi della Commissione nei bilanci nazionali. Per la verità nemmeno tutti i parlamenti nazionali l'hanno capito. E così quando poi se ne coglie il senso, è rivolta, indignazione, rifiuto. Anche perché il nuovo trasferimento di sovranità nazionale a Bruxelles si è compiuto senza trasparenza democratica. L'Europa vive come progetto delle elites, non dei popoli. Però ora che entra sempre più nella gestione delle nostre vite e delle nostre tasche, la gente pretende a giusto titolo che sia più democratica, meno opaca e tecnocratica.

Sfortuna vuole che la crisi esistenziale dell'Unione si incroci sia con quella provocata dalla globalizzazione economica e migratoria con il carico di insicurezze che si porta dietro, sia con quella delle democrazie occidentali, incapaci di trovare un efficace modus vivendi e operandi nella società della comunicazione istantanea e dei social network dove i partiti tradizionali non si ritrovano più, incapaci di risposte convincenti, avvitati su politiche miopi, prive di orizzonti strategici. Ansiosi solo di mettere la testa sotto la sabbia.
In 60 anni di vita l'Europa ha dato tanto ma non è riuscita a darsi una solida identità: dopo il quinquennio di passione, l'euro non sembra il veicolo più adatto. Come ricostruire il consenso perduto? Se tornerà la ripresa economica, l'anti-europeismo rientrerà nei ranghi fisiologici, giurano in molti. C'è da sperarlo. Nel mondo globale l'Europa non è un'opzione ma una necessità assoluta. Peccato che, prima dei loro cittadini, siano molti governi a non averlo ancora capito. Per questo Marine Le Pen potrebbe essere l'avanguardia francese di un disastro europeo.

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