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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2014 alle ore 15:00.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:06.

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Nella valutazione del piano delle riforme e della finanza pubblica può essere utile partire da una vicenda che solo in apparenza non c'entra. La spaccatura del Pd che ieri si è consumata sul superamento del Senato è infatti la cartina di tornasole di un certo ceto politico che vive con sofferenza le riforme. Nel giorno in cui il Governo approva la strategia economica su cui l'Italia, con i suoi lavoratori e le sue imprese, si gioca parte del proprio destino, mezzo partito del premier non trova di meglio che ventilare maggioranze alternative all'insegna del sacro principio del l'eleggibilità diretta dei senatori (che poi è praticata in uno solo tra i 15 Paesi dell'Europa occidentale).

Anche per questi senatori, nell'entrare nel merito dell'analisi del Documento di economia e finanza, vale la pena riassumere i termini della questione che abbiamo davanti. Primo: dopo un ventennio di immobilismo e sette anni di durissima crisi economica l'Italia ha un inderogabile bisogno di riforme strutturali, istituzionali ed economiche. Secondo: queste riforme hanno per la prima volta il consenso della stragrande maggioranza degli italiani, che non ne possono più dei distinguo dei tanti frenatori interessati. Terzo: l'Europa, Germania compresa, guarda con favore a questi interventi e subordina alla loro realizzazione, rigorosa, la possibile apertura a un allentamento dei vincoli di bilancio per il nostro Paese.

È in questo contesto che si misura l'arretratezza del dibattito sulle riforme, sempre ostaggio della logora e provinciale cultura giuridica nostrana, ed è in questo contesto che vanno misurati il Def e il Piano di riforma approvati ieri in Consiglio dei ministri.
Va allora detto subito che il disegno complessivo punta ad essere allo stesso tempo rigoroso e ambizioso. C'è Renzi, ma c'è anche molto Padoan. E questo ibrido può essere virtuoso. Anche se restano i dubbi su una certa indeterminatezza di molte delle misure annunciate. Aspettare il nero su bianco dei decreti e delle leggi - e delle coperture - non è disfattismo, è un atto dovuto verso un paese che in passato è stato spesso preso in giro da chi lo ha governato.

Il rigore di questo Def è innanzitutto nell'aver scelto di indicare come deficit il 2,6% senza utilizzare il margine fino al 3%. Farlo avrebbe significato dare un messaggio sbagliato all'Europa, oltre ad esporre il Paese nel caso di qualunque difficoltà di bilancio nel corso dell'anno. Dopo le elezioni europee si può aprire una fase nuova della politica continentale, ma conviene arrivarci con il massimo dell'affidabilità evitando false partenze.
Restano, in questo senso, le perplessità sulla scelta di destinare la dote per i tagli fiscali quasi interamente all'Irpef. I famosi 80 euro in più in busta paga. Se ci fosse la sicurezza che si tradurranno automaticamente in consumi sarebbero benvenuti. Ma l'unica sicurezza, per ora, è quella di un total tax rate che pesa sulle imprese per il 65%, riducendone al minimo la potenzialità competitiva e quindi la possibilità di creare posti di lavoro.

Le stesse tabelle preparatorie del governo, d'altra parte, indicano che la spinta al Pil, nel saldo tra il taglio all'Irpef e gli effetti della spending review, produrranno per quest'anno e l'anno prossimo solo un decimale di Pil in più. Davvero poca roba, tanto da lasciare la sensazione di una manovra sulle buste paga dalle motivazioni soprattutto elettorali.
Così come una traccia di demagogia si ritrova nel prelievo fiscale che a sorpresa è spuntato sulle banche. Le banche sono tra i soggetti oggi meno popolari in Italia (e non senza ragioni) ma va detto che, in una situazione già difficile, questa stretta rischia di tradursi in minor credito per le imprese e l'economia reale. Scelta comprensibile di consenso, dunque, ma pericolosa.

È anche vero che le profonde riforme annunciate nel Pnr, dal fisco alla pubblica amministrazione, hanno bisogno proprio di un grande consenso per essere realizzate. È un piano importante quello prospettato, che dalla carta dei documenti programmatici ora deve trasformarsi in fatti concreti. E il consenso è l'arma in più di cui dispone Matteo Renzi rispetto a chi lo ha preceduto. La sua popolarità potrebbe consentirgli di arrivare là dove nessuno dei suoi predecessori, tecnicamente più attrezzati di lui, è potuto arrivare. Lo si è potuto verificare già in queste settimane, con il decreto sul lavoro che ha liberalizzato i contratti a termine senza incappare nei tradizionali veti a sinistra. Ma questo è solo un assaggio. È nei prossimi mesi che Renzi dovrà dimostrare che il suo metodo, fatto di carisma e poca sistematicità, sarà in grado di cambiare davvero l'Italia.

Si comincerà tra una settimana proprio dai tagli di spesa, il nucleo di questo Def. Rispetto al passato, per la prima volta si è entrati nel merito: tagli sugli stipendi dei dirigenti pubblici per 500 milioni, interventi sulla sanità per un miliardo, tagli al funzionamento della politica, una sforbiciata per tutto l'arcipelago delle società controllate dal settore pubblico. Tutti tabù fino ad oggi aggirati e mai davvero attaccati.
Sarà il vero banco di prova per Renzi. Poi verranno le montagne da scalare delle riforme del fisco e della pubblica amministrazione. E verranno soprattutto le elezioni europee, dove il premier si giocherà gran parte del suo destino. Il cammino tra il "venditore" delle slide e il premier delle riforme è agli inizi. Tutto è ancora da dimostrare. Ma questo Def è un passo avanti.

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