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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 07:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:21.

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Fra le contraddizioni minori ma emblematiche dell'eterna campagna elettorale italiana, c'è anche questa. Silvio Berlusconi è un condannato a titolo definitivo per frode fiscale in attesa di scontare la sua pena, anch'essa molto simbolica, come servizio sociale a Cesano Boscone. Ma Berlusconi è anche il leader di Forza Italia che ieri è intervenuto via telefono al congresso del Sap, il sindacato autonomo della polizia. Parole applaudite che sono servite all'ex premier per rivendicare i meriti dei suoi governi a sostegno delle forze dell'ordine.

Bisogna ammettere che la situazione è bizzarra, probabilmente senza precedenti. Un condannato che parla a un congresso di poliziotti forse non si era mai visto (fra l'altro - episodio inquietante - gli stessi congressisti hanno dedicato un applauso di cinque minuti ai tre loro colleghi giudicati colpevoli di avere provocato la morte del giovane Federico Aldovrandi nel 2005).
La contraddizione è l'inevitabile conseguenza del compromesso all'italiana che ha chiuso per ora la vicenda. Berlusconi è entrato in una zona grigia che non gli permette di essere del tutto libero, ma gli consente di fare tutto quello che vuole in campagna elettorale tranne candidarsi. In effetti si tratta di un ex presidente del Consiglio e tuttora leader politico, sia pure sul viale del tramonto: si è deciso che la cosiddetta «agibilità politica» non gli poteva essere negata. Ma ciò non toglie che la soluzione individuata sia un pasticcio foriero di guai.
Difatti il Berlusconi di oggi è un personaggio indotto dalle circostanze e dai suoi rancori a imboccare una strada senza ritorno, in un'offensiva sempre più aspra contro le istituzioni e l'Europa mescolate insieme come due facce della stessa medaglia. Basta vedere l'attacco al capo dello Stato che non avrebbe avvertito il «dovere morale» di concedergli la grazia «motu proprio», cioè di sua iniziativa. Chiederla, infatti, avrebbe costituito da parte di Berlusconi «un'ammissione di colpevolezza». Si capisce che su questi presupposti dobbiamo attenderci una campagna elettorale violenta ed estremista, giocata sul registro anti-europeo e in cui il capo dello Stato diventa una sorta di bersaglio fisso, in quanto fattore di equilibrio del sistema.

Berlusconi, che oggi è parecchio sotto il 20 per cento, vuole recuperare a tutti i costi i voti del centrodestra tentati da Grillo. A sua volta quest'ultimo si batte come fosse la partita della vita perché vede la concreta possibilità d'insediarsi come secondo polo a non grande distanza dal Pd. E poi ci sono la Lega e Fratelli d'Italia, decisamente euro-scettici. Il voto di protesta rischia di essere quasi il 50 per cento dell'elettorato, forse più. Un dato su cui riflettere. E benché le elezioni di maggio siano più che altro un grande sondaggio sull'Unione e la moneta unica, non c'è dubbio che gli esiti riguarderanno la politica interna. Specie se la campagna si svolgerà secondo le peggiori previsioni, in un crescendo di demagogia e con toni quasi eversivi.
Questo dovrebbe obbligare Renzi e i suoi a una convincente controffensiva, senza assecondare più di tanto il populismo degli avversari (cosa che accade spesso). Ora che il primo voto sulle riforme è stato rinviato al 10 giugno, il premier dovrebbe stare attento ad adombrare le sue dimissioni. Non è il messaggio giusto da mandare agli elettori a poche settimane dal voto.

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