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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2014 alle ore 13:00.
L'ultima modifica è del 06 maggio 2014 alle ore 13:56.
Un assegno potenziale di oltre 800 miliardi all'anno, qualcosa come il 6% del Pil dei Ventotto. È questo, secondo un recente studio dell'Europarlamento, l'impatto economico della «fase 2» dell'integrazione europea e come rovescio della medaglia il prezzo da pagare nel caso (ipotetico) di rinuncia al progetto. Mentre l'Unione appare oggi come un cantiere incompleto e la campagna per eleggere il nuovo Parlamento dal 22 al 25 maggio assume sempre di più i toni di un referendum sul "sogno" dei Padri fondatori, lo studio mette nero su bianco il «costo della non Europa».
«L'Unione – sottolinea Yves Bertoncini, direttore dell'Istituto Jacques Delors Notre Europe – è già realtà, con un mercato unico, uno spazio di libera circolazione, l'euro, il principio della riconciliazione. La loro messa in discussione avrebbe sì costi economici e sociali, ma sarebbe soprattutto una retromarcia in termini politici. La principale sfida delle prossime elezioni sarà quella di proiettare gli europei verso l'orizzonte 2020, con proposte per uscire dalla crisi e per affermare il ruolo della Ue nel mondo».
Il completamento del mercato unico e la creazione di un'area digitale europea rappresentano da sole il 60% dei benefici e dunque delle perdite in caso di mancati progressi. Se la posa della prima pietra del mercato unico di beni e servizi nel 1992 ha già portato un dividendo stimato di 233 miliardi nei sei anni successivi e un aumento dell'occupazione dell'1,3%, la crisi ha eroso parte dei guadagni. Un ulteriore abbattimento delle frontiere interne potrebbe portare a un beneficio potenziale annuo di 235 miliardi nella prossima decade. La boccata d'ossigeno potrebbe arrivare dal completamento del puzzle con una maggiore libera circolazione dei servizi, una protezione targata Ue più efficace per i consumatori, una migliore sorveglianza sui prodotti finanziari, ma anche da un'attuazione più puntuale delle regole già esistenti. Più in salita appare invece la strada del mercato unico digitale, tutto da costruire. Oggi la situazione resta frammentata e l'e-commerce senza barriere resta un miraggio, con ostacoli tangibili sulla risoluzione delle controversie e sulle regole di applicazione dell'Iva. Eppure, secondo lo studio, se queste potenzialità dovessero restare inespresse l'Unione dovrebbe dire addio a un guadagno virtuale di 260 miliardi, lo stesso valore del Pil della Danimarca.
La sfida più ambiziosa riguarda però il completamento del mercato finanziario e dell'Unione bancaria, il cordone di sicurezza per prevenire altre crisi in futuro e uno dei maggiori terreni di scontro tra le istituzioni europee e i 28 Paesi. Così, regole comuni per i mercati finanziari porterebbero a un guadagno, a regime, di 60 miliardi all'anno, mentre l'Unione bancaria farebbe risparmiare 35 miliardi. Dal prossimo novembre verrà affidata alla Bce la vigilanza su 128 istituti, ma si tratta solo del primo pilastro, mentre entrerà in vigore tra il 2015 e il 2016 il meccanismo unico di gestione delle crisi e gli Stati membri devono ancora recepire la direttiva sullo schema unico sulle garanzie per i depositi. La messa a regime di questo dossier consentirebbe di risparmiare 13 miliardi all'anno in tre Paesi vulnerabili (Grecia, Irlanda e Spagna). «La cifra salirebbe a 30 miliardi - si legge nello studio - se il paracadute dovesse allargarsi ad altri Paesi come Italia, Portogallo, Cipro e Slovenia».
Un altro fronte aperto riguarda un coordinamento ancora più stretto delle politiche di bilancio per prevenire l'effetto contagio che porterebbe benefici per 31 miliardi. Dopo l'entrata in vigore del "Fiscal compact", del "Two Pack" e del "Six Pack" che hanno intensificato il ruolo della Commissione Ue come cabina di regia per i conti pubblici, la prossima frontiera si snoda - secondo il Parlamento - verso un bilancio europeo con risorse proprie e un maggiore controllo preventivo. L'effettiva realizzazione del mercato unico dell'energia avrebbe invece come risultato un premio di efficienza di 50 miliardi.
Lo studio mette in luce anche i punti di forza dell'accordo di libero scambio tra Ue e Usa ancora in corso di trattativa. Rinunciare a questa opportunità significa - secondo Strasburgo - non cogliere benefici pari a 60 miliardi, in termini di Pil, riduzione delle tariffe e punti sulla bilancia commerciale. La lista dei benefici spazia poi dalla politica estera e di difesa comune (26 miliardi) fino a un'unica area di ricerca europea.
«La minaccia degli euroscettici – rileva la ricercatrice del Ceps, Sonia Piedrafita – non è un pericolo reale. La loro avanzata deve però agire da sprone per avviare una riflessione su un cambiamento delle istituzioni europee». Secondo il gruppo di alto livello del Ceps il rinnovamento passa per un ruolo più politico della Commissione Ue con una riorganizzazione dei portafogli per aree tematiche e la presentazione di un piano legislativo strategico per cinque anni. Ma anche per un maggiore coinvolgimento del Parlamento nel coordinamento delle politiche economiche e un raccordo con le Assemblee nazionali.
«L'Unione – conclude Janis Emmanouilidis, senior policy analist all'Epc (European policy centre) – non è un prodotto finito ed è spesso ostaggio degli interessi nazionali. Può essere ancora migliorato e completato, ma è un progetto irreversibile».
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