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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2014 alle ore 08:37.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2014 alle ore 14:25.

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Inutile cercare traccia dell'Italia nella sesta edizione della Coppa Rimet: gli azzurri erano guidati da Foni, che oscillava indeciso tra l'adozione del catenaccio, sistema sempre più utilizzato dalle squadre di club italiane, e il WM. La Nazionale arrivò impreparata all'incontro decisivo per la qualificazione contro l'Irlanda del Nord: sarebbe bastato un pareggio, contro una rivale tutt'altro che trascendentale, e invece a Belfast arrivò una sconfitta per 2-1. Un'occasione persa per prendere parte a un mondiale tutto sommato abbordabile: in Svezia volarono 16 squadre, poi divise in quattro gironi con le prime due destinate ad accedere ai quarti, e oltre all'Italia mancava anche l'Uruguay che era stato eliminato dal Paraguay.

La sorpresa di quell'edizione fu il Brasile: non perchè avesse giocatori di scarso livello, tutt'altro, ma perché per la prima volta nella storia i verdeoro sposarono quei criteri tattici che fino a quel punto erano stati sdegnosamente rifiutati a favore di un gioco fatto di puro spettacolo. Così il Brasile adottò il catenaccio, mascherandolo con un 4-2-4 che poteva ingannare solo i non addetti ai lavori.

Il merito dell'introduzione di questo sistema fu di Bela Guttmann (proprio quella della maledizione lanciata qualche anno dopo sul Benfica) che l'aveva sperimentato in Italia quando allenava il Milan. Fuggito dal nostro Paese dopo un incidente in auto, nel quale aveva causato la morte di una persona, Guttmann era arrivato a San Paolo vincendo proprio con il catenaccio il titolo brasiliano. Il commissario tecnico dei verdeoro, il brasiliano di origini italiane Vicente Feola, decise che quello sarebbe stato il sistema di gioco per la sua Nazionale.

Tra i giocatori convocati per la Svezia, selezionati con estrema cura ricorrendo anche a visite mediche specialistiche e profili psicologici, compariva il nome di un ragazzino di appena 17 anni: Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé. Sarebbe diventato il più grande di sempre. Solo la carenza di filmati dell'epoca rendono possibile accostarlo a Maradona: Pelé era sì allo stesso livello sublime di Maradona, ma in qualsiasi singola specializzazione del gioco. Destro, sinistro, colpo di testa, dribbling, contrasto, difesa. A differenza dell'argentino, che è stato comunque immenso, non aveva un solo punto debole. Era magico qualsiasi cosa facesse. Durante una partita con la Nazionale, giocata sotto la pioggia, per evitare di bagnarsi troppo (i campi di una volta non erano quelli di oggi) oltre a scartare i difensori avversari passò 90 minuti a dribblare le pozzanghere che si erano formate sul terreno di gioco. Ancora oggi Altafini, che di Pelè è stato la riserva, racconta l'episodio con ammirazione.

Il Brasile arrivò così in Svezia pieno zeppo di campioni (oltre a Pelé c'erano Didì, Vavà, Garrincha, Zagallo, Djalma Santos, Nilton Santos, Gilmar solo per citarne alcuni) ma soprattutto con una preparazione tattica fino a quel momento sconosciuta. Era un Brasile diverso, che magari non distruggeva gli avversari ma che non prendeva mai gol.

I quattro gironi classificarono ai quarti Francia, Jugoslavia, Svezia, Galles, Brasile, Urss, Germania Ovest e Irlanda del Nord. La Francia distrusse gli irlandesi con un sonoro 4-0, anche grazie a una doppietta di Fontaine che, con 13 reti, sarebbe stato il capocannoniere del torneo. Un record ancora oggi imbattuto. La Svezia regolò l'Urss con un tranquillo 2-0, mentre Germania e Brasile si limitarono all'1-0 contro Jugoslavia e Galles. L'imbattibilità della difesa dei verdoro continuava.

Gli abbinamenti delle semifinali videro la Francia opposta al Brasile e la Germania alla Svezia. Per la prima volta nel torneo la porta della squadra di Feola venne violata: per i transalpini segnarono Fontaine e Piantoni, ma non fu sufficiente per salvarsi dai gol di Vavà e Didì e soprattutto dalla tripletta di Pelé. La Svezia vinse 3-1 con la Germania, ma la gara fu pesantemente condizionata da un arbitraggio che definire casalingo è puramente eufemistico.

La finale di Stoccolma fu di fatto senza storia: i brasiliani, presi dall'emozione per essere sul punto di vendicare la tragedia del Maracanà, iniziarono la partita contratti e timorosi. La Svezia andò subito in vantaggio, dopo soli quattro minuti, con Liedholm: i verdoro si svegliarono di colpo e seppellirono i padroni di casa con due doppiette di Vavà e Pelé più un gol di Mario Zagallo. La seconda marcatura svedese che fissò il risultato sul 5-2, a pochi minuti dalla fine, sembrò quasi una consolazione. Il mondo del calcio aveva trovato un nuovo padrone, che avrebbe dominato a lungo con il solo intervallo del 1966.

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