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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2014 alle ore 08:42.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2014 alle ore 14:26.

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Per capire la grandezza della Nazionale brasiliana che si presentò al Mondiale del 1970, in Messico, basta dire che i cinque uomini che giostravano in attacco erano cinque mezz'ali destre. In quel ruolo, nei rispettivi club, giocavano infatti Pelé, Rivelinho, Jairzinho, Gerson e Tostao. Si adattavano, e come si adattavano, a ruoli diversi per poter essere schierati insieme. Viene da ridere pensando alle polemiche dei campioni di oggi, che non appena devono spostare di dieci metri il loro raggio d'azione giustificano le scarse prestazioni con il fatto di essere «fuori ruolo».

Solo contro quel Brasile si fermarono i sogni italiani, e forse la finale avrebbe potuto anche chiudersi in un modo diverso senza quella famosissima «Italia-Germania 4-3» che tutto il mondo ancora ricorda.

Ai quarti di finale, come ormai abitudine nella formula dei mondiali, si qualificavano le prime due di ogni girone: gli azzurri vinsero il loro senza spingere più di tanto, chiudendo con due pareggi (doppio 0-0 con Uruguay e Israele) e una vittoria di misura per 1-0 sulla Svezia. Le altre nazionali a passare il turno furono Brasile, Urss, Uruguay, Perù, Messico, Germania Ovest e Inghilterra. La ripetizione della finale di quattro anni prima vide questa volta prevalere i tedeschi, che si imposero ai supplementari per 3-2 dopo essere stati in svantaggio per 0-2 fino al 68esimo minuto di gioco. L'Uruguay regolò per 1-0 l'Urss, dopo una gara faticosa e chiusa anche in questo caso ai supplementari. Brasile e Italia passeggiarono contro Perù e Messico, battutti rispettivamente per 4-2 e 4-1.

Si iniziavano a vedere i primi effetti della fatica per il gioco in altura, che rendeva difficile la respirazione e allungava i tempi di recupero in seguito a sforzi improvvisi e violenti come quelli che il calcio richiede.

Nelle semifinali il Brasile liquidò facilmente l'Uruguay, dopo essere andato in svantaggio a inizio primo tempo, senza mostrare preoccupazione alcuna sul risultato finale della gara. L'Italia giocò contro la Germania la partita più famosa della storia del calcio, quella che ancora oggi viene celebrata in tutto il mondo. A dire il vero fu una partita, fino al novantesimo, piuttosto noiosa: giocata al trotto, senza particolari spunti, con gli azzurri che conducevano 1-0 grazie al gol di Boninsegna siglato dopo appena otto minuti di gioco.

Una partita che sembrava ormai finita quando Schnellinger, all'ultima azione di gioco, riuscì a battere Albertosi portando l'incontro ai supplementari. Da lì in poi nacque la leggenda, con il vantaggio tedesco di Müller al 94esimo, il pareggio di Burgnich quattro minuti dopo, il nuovo vantaggio della Germania sempre con Müller e Albertosi che inveisce contro Rivera perché non aveva saputo coprire il palo, come avrebbe dovuto fare. E Rivera, Pallone d'oro in carica, che appena un minuto dopo si butta in attacco, scambia un paio di passaggi e tira per il 4-3 definitivo. La Germania è fuori, per l'Italia sarà la sfida decisiva contro Pelé.

Entrambe le Nazionali arrivarono a quella finale con due trofei mondiali alle spalle: chi avesse vinto allo stadio Azteca di Città del Messico si sarebbe aggiudicato, in via definitiva, la Coppa Rimet messa in palio per la prima volta nel lontano 1930.

Sappiamo com'è finita: 4-1 per il Brasile, con il gol italiano di Boninsegna a illudere con un provvisorio pareggio durato fino al 66esimo minuto. Quel Brasile era stellare, probabilmente la più forte squadra di tutti i tempi. Eppure avrebbe potuto perderla, quella finale, se gli azzurri non avessero disputato «la partita del secolo», la mitica semifinale contro la Germania che aveva prosciugato le loro forze. Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato, Bertini, Domenghini, Mazzola, De Sisti, Riva, Boninsegna, fino a quando avevano avuto fiato, erano riusciti a imbrigliare gli avversari, a resistere, a non farsi superare, a pareggiare lo svantaggio iniziale con gol di Pelé. Del resto erano campioni d'Europa in carica; del resto Inter e Milan, in quegli anni, dominavano a livello di club in Europa e nel mondo. I 120 minuti dell'Atzeca furono fatali e quando entrarono Jiuliano e soprattutto Rivera, a soli sei minuti dalla fine, non c'era più nulla da fare.

Proprio i sei minuti di Rivera sono entrati nella storia del calcio, perché tenere in panchina un fuoriclasse di quel calibro era incomprensibile. Valcareggi, commissario tecnico di quella Nazionale, avrebbe trovato qualche anno dopo degli imitatori, che avrebbero tenuto in panchina un fantastico Roberto Baggio per far giocare Vialli, nel 1990, e Del Piero nel 1998. In entrambi i casi sarebbe finita male.

Di Messico '70 si può dire che l'Italia fece il massimo possibile e che il Brasile era più forte: ma si può dire anche che, senza la semifinale contro la Germania, il risultato avrebbe potuto essere diverso.

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