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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2014 alle ore 10:11.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2014 alle ore 14:27.

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Confessiamolo, per tutti noi che l'abbiamo vissuto quello del 1982 non è «un mondiale», è «Il Mondiale». Quello più mondiale di tutti, quello che per avvicinarlo si dovrebbe battere il mese prossimo il Brasile, a casa sua, nella bolgia del Maracanà. Allora forse, il Mondiale dell'82 troverebbe un vero erede, senza nulla togliere ai campioni e alla gioia provata nel 2006. Anche a Berlino l'Italia era campione del mondo, ma la memoria andava a 24 anni prima e a quella Coppa alzata da Dino Zoff nel bel mezzo del Santiago Bernabeu in un tripudio di bandiere tricolori. A quel «non ci prendono più» letto chiaramente, in mondovisione, sulla bocca del Presidente della Repubblica Sandro Pertini una frazione di secondi dopo il tre a zero messo a segno da Altobelli. Anche perché, il Presidente, aveva pensato bene di accompagnare la frase con ampi gesti che funzionavano meglio di un traduttore simultaneo.

Eppure quella storia, finita benissimo, era iniziata tra le polemiche come spesso accade alle spedizioni azzurre vittoriose. Il calcio italiano usciva dallo scandalo delle scommesse, in cui era rimasto coinvolto anche il nostro bomber principe, Paolo Rossi, squalificato per due anni. Eppure, con tre sole partite di campionato giocate dopo lo stop, il Ct Enzo Bearzot l'aveva convocato lasciando a casa, tra le proteste generali, il capocannoniere del campionato Roberto Pruzzo. E aveva portato Causio, ormai vecchio e destinato a non giocare, lasciando a casa un fantasista in piena forma come Evaristo Beccalossi.

Quella in Spagna fu la prima edizione a 24 squadre, con 6 gironi iniziali che dovevano selezionare gli abbinamenti per la seconda fase: passavano le prime due e per un evidente bizzarria della formula i raggruppamenti che ne sarebbero usciti avrebbero incluso una prima e due seconde, ma anche una seconda e due prime, con un evidente sbilanciamento in termini di equilibrio delle forze.

L'Italia era stata sorteggiata con Polonia, Perù e Camerun: quasi una passeggiata, per quello che si rivelò invece un girone da incubo. Allo 0-0 iniziale con la Polonia, dopo una pessima partita, seguì un altrettanto stentato 1-1 con il Perù. Diventava decisiva la partita con il Camerun e, dopo il vantaggio di Graziani al 61esimo, arrivò subito a gelare tutti il pareggio africano di M'Bida. Con il Camerun a tre punti diventava decisiva la differenza reti, o meglio ancora il numero di gol segnati: uno solo per il Camerun, due per l'Italia. E per di più Bearzot insisteva a far giocare Paolo Rossi, evidentemente fuori forma e privo della brillantezza necessaria per il suo gioco fatto di scatti e di gol di rapina.

Nella seconda fase gli azzurri finirono nel girone di ferro: li attendevano Brasile e Argentina, Zico e Maradona, le due nazionali superfavorite per la conquista del titolo. Nessuno poteva batterle, nessuno era al loro livello. Il Brasile, soprattutto, sembrava destinato a rititare la Coppa senza scendere in campo tanta era la superiorità nei confronti degli avversari.

Che qualcosa non andasse secondo i pronostici lo si capì quando l'Argentina perse per 2-1 con l'Italia. Tutto il mondo si stropicciò gli occhi: Gentile, usando tutti i trucchi del mestiere, aveva bloccato Maradona. Tardelli e Cabrini avevano fatto da goleador e la rete di Passarella, a sette minuti dalla fine, aveva solo il sapore di un piccolo risarcimento per chi avrebbe dovuto schiantare quell'Italietta appena uscita da un girone ridicolo. Come ridicolo era Paolo Rossi, inutile nel suo rincorrere la palla senza metterla mai dentro. L'Argentina chiuse il suo mondiale tre giorni dopo contro il Brasile: Zico, Serginho e Junior avevano messo al sicuro il risultato ben prima dell'inutile gol di Diaz, all'89esimo.

La sfida decisiva per l'accesso alle semifinali era dunque Italia-Brasile, una sfida impossibile. Come sia andata quella partita è nella storia del calcio, seconda solo a «Italia-Germania 4-3» del 1970 giocata allo stadio Atzeca. Al Brasile bastava un pareggio, in virtù della migliore differenza reti, ma compiaciuto della sua forza e dimentico della lezione del 1958, dove per vincere il primo Mondiale aveva imparato il catenaccio, scese in campo con un solo risultato in testa: la vittoria. Paolo Rossi si svegliò all'improvviso dal suo torpore, bucando come il burro dopo soli 5 minuti la difesa verdeoro. I brasiliani pareggiarono con Socrates, al 12esimo, e ripresero a macinare gioco sbilanciandosi in attacco. Di nuovo Rossi al 25esimo: 2-1, e nel piccolo Stadio de Sarrià sembrava di sognare. Perchè, dopo quel vantaggio, gli azzurri riuscirono a resistere a tutti gli attacchi avversari, vacillando senza mai cadere. Fino al 69esimo quando Falcao rimise di nuovo il punteggio in equilibrio. A venti minuti dalla fine i brasiliani ricominciarono a bailare futbol, ma l'Italia era ormai pronta per entrare nella leggenda. Di nuovo Rossi, dopo soli 5 minuti, stroncò in modo definitivo i sogni verdeoro e solo un fischio dell'arbitro Klein tolse ad Antognoni la rete di un sacrosanto 4-2. Dino Zoff, che quattro anni prima era stato accusato di essere troppo vecchio e di non vederci bene, bloccò a pochi istanti dalla fine un colpo di testa assassino di Oscar: riflessi da gatto, altro che vecchio. L'Italia era in semifinale, il Brasile tornava a casa. Come nel 1950, nella finale contro l'Uruguay, non aveva saputo accontentarsi del pareggio. Come nel 1950 aveva finito per perdere.

Alle semifinali approdavano anche la Polonia, che aveva prevalso su Urss e Belgio, la Germania Ovest, che aveva vinto il proprio raggruppamento su Inghilterra e Spagna, e la Francia che aveva eliminato Austria e Irlanda del Nord. Tra tedeschi e francesi fu una battaglia campale che nemmeno i tempi supplementari erano riusciti a schiodare dal pareggio (3-3 dopo 120 minuti con gol di Platini, Tresor e Giresse da una parte, di Littbarski, Rummenigge e Fischer dall'altra). I calci di rigore dissero Germania, con un solo errore contro i due dei francesi.

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