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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2014 alle ore 09:07.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 09:47.

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E adesso non veniteci a raccontare che il tiki-taka (o se preferite il tiqui-taka, come si scrive in spagnolo) è finito. Ma non veniteci nemmeno a raccontare che nel passato era già successo, ai campioni del mondo in carica, di essere eliminati al primo turno. Sarebbero due errori madornali, che è bene non commettere.

Partiamo dal tiki-taka: che non è la Spagna, o il Barcellona, ma un sistema di gioco basato su un possesso palla portato al massimo livello possibile. Fuori dalla Spagna lo hanno adottato, tanto per fare qualche esempio, il Bayern Monaco e l'Italia di Prandelli: i primi riproducendolo in modo quasi integrale, la nostra Nazionale adattandolo alle caratteristiche dei giocatori in campo. Resisterà nel tempo.

Era già successo con il catenaccio che, a partire dagli anni 50, proprio in Italia aveva trovato la sua piena maturità (era nato nel dopo guerra) anche in quel caso con le opportune modifiche. Lo stesso catenaccio che avrebbe portato il Brasile al suo primo titolo nel 1958, lo stesso catenaccio che ulteriormente modificato avrebbe fatto grandi le squadre italiane negli anni 60, dominatrici in Europa e nel mondo: gli italiani hanno sempre avuto una certa abilità nel prendere le buone idee altrui e trasformarle in geniali.

La stessa cosa è accaduta con il gioco totale degli olandesi, che come allora non si è più rivisto ma ha ispirato le tattiche degli anni seguenti, come il gioco di Arrigo Sacchi che ha fatto da spartiacque per l'intero mondo del calcio, non solo quello italiano.

Le grandi squadre prima o poi perdono e passano la mano: il gioco resta, si trasforma, evolve. Con il tiki-taka è la stessa cosa: e la prima vera evoluzione la sta facendo vedere la nostra Nazionale. Se sarà la trasformazione giusta lo vedremo già nelle prossime partite.

Seconda questione, i campioni in carica hanno già perso al primo turno in altre occasioni: per la statistica sì, ma guardando le cose con attenzione vediamo che è la prima volta che si verifica un crollo di questo tipo con in campo gran parte dei campioni del mondiale precedente. Ed è questa la vera, grande differenza. Perchè il titolo in sé non significa nulla, è solo un trofeo da difendere che non scende in campo a giocare.

Nel 1950 non poteva ovviamente accadere: l'Italia era stata campione nel 1934 e 1934, sedici più tardi Meazza e compagni avevano smesso da un pezzo. Nel 1966 il Brasile era solo sulla carta il Brasile di quattro anni prima: vero che c'era Pelè, ma più di metà squadra era stata cambiata. L'infortunio di O'Rey dopo la prima partita non cambia la sostanza delle cose: anche quattro prima, in Cile, l'asso brasiliano era stato costretto ad assistere al trionfo dei compagni per un guaio muscolare rimediato nella partita d'esordio. Stessa cosa per Lippi nel 2010. Al massimo si può dire che i vecchi gladiatori a fine carriera e ancora in campo indebolivano una rosa ampiamente rivista. I grandi giocatori rimasti, quelli buoni come De Rossi, Buffon e Pirlo, sono abili e arruolati ancora oggi a otto anni dal trionfo di Berlino. E guai a toccarli.

Il crollo della Spagna è diverso: il nucleo dei giocatori è quello pluricampione d'Europa e vincitore del mondiale 2012. A parte l'esclusione di ieri, Xavi e Piqué erano in campo nella disfatta con l'Olanda. Casillas, Xabi Alonso, Iniesta e Sergio Ramos hanno fatto grande questa Spagna. I campioni in carica, per la prima volta nella storia del mondiale, sono davvero caduti sul campo. E il tonfo è di quelli che fanno un grande rumore: anche perché il calcio spagnolo, appena un mese fa, ha alzato i due trofei più importanti a livelllo di club: la Champions e l'Europa League. Forse solo l'eliminazione della Francia di Zidane nel 2002 è davvero assimilabile a quella spagnola, anche se quella Francia non impose all'attenzione del mondo un nuovo modo di giocare a calcio.

Per gli appassionati delle coincidenze (o della cabala) ci sono un paio di motivi di interesse: ieri, oltre all'abdicazione dei campioni del mondo, c'è stata quella del Re di Spagna, Juan Carlos. E «la Roja», come viene soprannominata la Nazionale spagnola, ha perso contro «la Roja», come viene chiamato il Cile. Al Maracanà, per la prima volta in un mondiale dopo quello del 1950, si assisteva alla resa di un giocatore brasiliano: Diego Costa, prestato alle Furie rosse ma nato a Lagarto, in Brasile, il 7 ottobre 1988. Una prova generale in piccola scala di un altro Maracanazo?

Gli spalti dello stadio di Rio de Janeiro ieri sera erano gremiti di maglie rosse: non quelle spagnole, abituate a salutare i trionfi di Iniesta e compagni, ma quelle cilene che festeggiavano un trionfo che, salvo sorprese nelle partite di chiusura dei gironi, dovrebbe avere come premio un ottavo di finale contro il Brasile.

Per la Spagna campione di tutto un addio al mondiale. Per il tiki-taka o tiqui-taka, come preferite, solo un arrivederci: si torna in campo domani sera, c'è Italia-Costa Rica, c'è il tiki-taka rivisitato di Pirlo e De Rossi.

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