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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 02 dicembre 2014 alle ore 08:56.

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Sui mercati petroliferi la giornata era iniziata con un nuovo bagno di sangue. Brent e Wti, ormai in calo da 5 mesi consecutivi - la serie negativa più lunga dall’epoca della recessione globale - sono scesi entrambi al minimo dal 2009:  67,53 dollari al barile per il riferimento europeo e 63,72 dollari per quello americano. Ma le quotazioni sono rimbalzate con forza al primo segnale di una possibile frenata dello shale oil americano: l’unico indicatore che sembra ormai interessare gli investitori, dopo che l’Opec ha affidato al mercato il compito di riequilibrare domanda e offerta di petrolio. In chiusura il Brent valeva 72,54 $/bbl (+3,4%), il Wti 69 $ (+4,3%).
Secondo «informazioni esclusive» che l’agenzia Reuters ha ottenuto da DrillingInfo, i permessi per trivellare nuovi pozzi nelle dodici principali aree di shale oil degli Usa sono diminuiti del 15% in ottobre: un calo consistente, che non si vedeva da almeno due anni e che è ancora più significativo se si considera che nei dieci mesi precedenti erano addirittura raddoppiati. «La prima tessera del domino è il prezzo del petrolio e questa fa poi cadere le altre», osserva Karr Ingham, economista che compila il Texas PetroIndex, spiegando alla Reuters che 2-4 mesi dopo il calo dei permessi diminuirà anche il numero delle trivelle impiegate e dopo altri 6 mesi si vedrà infine anche un rallentamento della produzione di greggio.

Tempi lunghi insomma, prima che la «cura Opec» possa fare effetto. Ad esserne preoccupato è anche il ministro del Petrolio iraniano, Bijan Zanganeh, che fin dal primo momento si era mostrato in disaccordo con le scelte dell’Organizzazione. «Se vuoi accrescere la tua quota di mercato devi ridurre i prezzi - ha detto alla Bloomberg -. Ma non puoi farlo con una terapia shock, nel giro di tre mesi. Non possiamo dire che nei prossimi 4-5 mesi vedremo scendere la produzione di petrolio da shale di 1 o 2 milioni di barili al giorno. Non ci sono fatti, né cifre a sostegno di questa teoria».
Anche la diminuzione dei permessi di trivellazione in fondo è un segnale ancora flebile e prematuro. E c’è da scommettere che non metterà fine alla volatilità sui mercati petroliferi. Del resto, come ha ricordato ieri Maria van der Hoeven, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), «mai prima d’ora gli aspetti economici del petrolio non convenzionale erano stati messi alla prova in questo modo».
La stessa Aie poco tempo fa aveva allertato che sono ormai non più del 4% le società di shale oil che hanno bisogno di quotazioni del barile a 80 dollari e oltre. Sono invece sempre più numerose quelle con un breakeven intorno a 40 dollari.

In un sondaggio realizzato in ottobre da Deloitte tra gli operatori del settore, due terzi sostenevano che i costi estrattivi per lo shale oil sono diminuiti sensibilmente rispetto agli esordi. Le compagnie stanno utilizzando metodi più sofisticati per rendere efficienti le loro operazioni, ad esempio risparmiando sull’impiego di acqua e sabbia nel fracking, o fratturazione idraulica, oppure utilizzando speciali trivelle che permettono di perforare contemporaneamente un numero più elevato di pozzi. In effetti, alcune società hanno già comunicato una riduzione degli investimenti in reazione al crollo delle quotazioni del greggio. Ma quasi tutte continuano a prevedere aumenti di produzione anche per il 2015.
Resta il tallone di Achille dei canali di finanziamento. Ed è probabilmente questo che dovrà essere tenuto d’occhio con maggiore attenzione nei prossimi mesi. Sul mercato Usa dei junk bond, le obbligazioni «spazzatura», il settore energia ha triplicato il suo peso dal 2008 a 210 miliardi di dollari. Ora un terzo di quelle obbligazioni è classificato come “distressed”, ossia prossimo alla necessità di ristrutturazione.

@SissiBellomo

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