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Napolitano e Renzi, dalla freddezza degli inizi all'endorsement pro-riforme

Hanno cominciato nella diffidenza - reciproca - ed è finita con l'endorsement pieno di Napolitano verso Renzi. Una distanza politica e culturale che si è progressivamente ridotta fino quasi ad azzerarsi. In nome della realpolitik di Napolitano e di un obiettivo comune: portare avanti le riforme istituzionali ed economiche. Giorgio Napolitano e Matteo Renzi non potrebbero essere più diversi: non è solo l'anagrafe ad allontanarli ma l'ambiente culturale, le esperienze, il modo di fare politica e di comunicare, il comportamento istituzionale, l'uso dei media. Differenze che sono rimaste ma che il pragmatismo politico di entrambi ha reso secondarie rispetto a un traguardo che è stato totalmente condiviso: fare una nuova legge elettorale e la riforma del Senato. I motori sulle riforme erano invece rimasti spenti con i due precedenti premier scelti dal capo dello Stato: Mario Monti ed Enrico Letta.

Non era cominciato bene il rapporto tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Quando da Lisbona il presidente della Repubblica aveva dato il suo via libera al cambio con Letta con un laconico «mi pare che il Pd abbia deciso», non si vedeva ancora quali sarebbero state le frizioni tra i due. Che si sono presto manifestate nella stesura della lista dei ministri. Lunghe ore di colloquio serale, lunghe discussioni e anche tensioni lasciate riposare una notte prima di decidere caselle cruciali come l'Economia, gli Esteri e la Giustizia. Racconti di incomprensioni e gelo puntualmente smentiti dagli uffici stampa ma che puntualmente hanno portato a soluzioni di compromesso almeno sull'Economia con Pier Carlo Padoan.

Insomma, un inizio faticoso, fatto di diffidenza. Renzi non si fidava di un presidente che aveva visto in Enrico Letta il suo pupillo, Napolitano non aveva chiara la consistenza politica dell'attuale premier. La scelta di avallare la staffetta a Palazzo Chigi era stata anche quella all'insegna del realismo politico dopo aver preso atto di una decisione del partito di maggioranza relativa e anche di una debolezza del Governo Letta che non era riuscito a produrre accelerazioni sul percorso di riforme. Il vero momento di svolta con Renzi - però - è stato dopo le elezioni europee del maggio scorso. Quel 40,8% ha avuto un peso per il Quirinale che ha sommato due risultati positivi: la sconfitta - in casa - dell'euroscetticismo di Grillo e della Lega; la più ampia vittoria - fuori casa - del partito italiano tra i socialisti europei.

Da quelle elezioni c'è stato un cambio vero nei rapporti tra i due. Al Quirinale è maturata la convinzione che solo Renzi poteva portare avanti un programma di riforme che poi era lo stesso obiettivo che si era dato Napolitano accettando il suo bis al Colle. Insomma, gli interessi si sono incrociati e saldati nel nome della legge elettorale e della revisione del bicameralismo perfetto. Ma anche nel nome di riforme economiche come quella del lavoro, scritta nella lettera che la Bce inviò all'Italia poco prima che Napolitano prendesse atto delle dimissioni di Berlusconi e nominasse capo del Governo Mario Monti.

È vero che Renzi non ha portato il capo dello Stato allo scenario migliore per le sue dimissioni - quello di riforme completate - ma si è avvicinato molto. Più di quanto avesse fatto Bersani durante la sua segreteria nei mesi del Governo Monti. Mesi in cui prevalse l'idea che il Porcellum potesse regalare una straordinaria vittoria al Pd. Non andò così. E in fondo, il rapporto tra Renzi e Napolitano si può leggere anche attraverso quello che ci fu tra il presidente e Bersani. Non gli diede l'incarico nel 2011 quando scelse Monti e non glielo diede nel 2013 nonostante quella “quasi vittoria”. La prima volta la ragione fu la riforma delle pensioni: alla domanda di Napolitano, Bersani rispose che non se la sentiva di guidare un Governo che avesse al primo punto la previdenza. La seconda volta Napolitano non considerò consistente la strategia di Bersani che voleva cercarsi la maggioranza di volta in volta in Parlamento. Un percorso considerato dal Quirinale avventuroso.

Quello fu considerato un vero strappo tra Napolitano e il suo partito di provenienza, i Ds, che Bersani in quel momento rappresentava. Uno strappo che è diventato più forte proprio per la progressiva vicinanza con Renzi. E si racconta di lunghi e sempre più frequenti colloqui di ex leader diessini al Quirinale per convincere Napolitano a fare pressioni su Renzi su vari fronti: o per la decisione di caselle come Mr.Pesc, o arginare Italicum e riforma del Senato. Sfoghi senza esito. Il finale è stato un endorsement di Napolitano quel 16 dicembre scorso quando nei saluti di Natale alle alte cariche dello Stato, e in presenza di tutti i leader ed ex leader dei Ds, ha stigmatizzato la “spregiudicata” tattica emendativa della minoranza Pd sulle due riforme istituzionali. Non è possibile dire chi tra i due si sia più avvicinato all'altro. Sono gli obiettivi politici che hanno reso compatibili due personalità davvero molto distanti.

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