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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2015 alle ore 13:59.
L'ultima modifica è del 20 marzo 2015 alle ore 16:06.

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I mercati hanno accolto con sollievo l'annuncio della Fed di voler procedere al rialzo dei tassi con gradualità. Se fino a qualche giorno fa l'opinione generale era che la stretta monetaria sarebbe arrivata a giugno di quest'anno, ora gli investitori mettono in conto tempi più lunghi (ottobre-dicembre). Il rialzo del costo del denaro, seppur rinviato, resta comunque un passaggio percepito come inevitabile dai mercati che, in questi mesi, dovranno fare i conti con i possibili effetti collaterali connessi al processo di «normalizzazione» della politica monetaria.

Una delle incognite più serie riguarda le ripercussioni che le scelte della Fed avranno sui Paesi emergenti. Nei giorni scorsi il numero uno del Fmi Christine Lagarde ha ammonito sui rischi di instabilità a cui sono soggetti i mercati emergenti proprio in vista della stretta monetaria Usa. Azioni, bond e valute delle economie emergenti sono state una delle destinazioni privilegiate dell'enorme massa di liquidità che i grossi investitori Usa si sono trovati a gestire negli anni del Quantitative easing della Fed. Quando però la banca centrale, nel 2013, ha fatto capire che gli stimoli monetari sarebbero finiti annunciando il cosiddetto “tapering” (graduale riduzione del Qe) una grossa fetta dei capitali che erano affluiti se ne sono andati provocando pesanti svalutazioni delle monete locali.

Se è vero che gli emergenti hanno recuperato dagli scivoloni del 2013 il rischio di nuovi terremoti continua a turbare i sonni degli investitori. Preoccupa in particolare il rischio di insolvenza delle imprese che, in questi ultimi anni, si sono fortemente indebitate in dollari (grazie ai costi di rifinanziamento bassi) e che oggi si ritrovano a dover onorare le obbligazioni in una valuta più forte. Secondo una recente stima della Bis (banca dei regolamenti internazionali) il debito in dollari contratto da società non finanziarie dei Paesi emergenti negli ultimi cinque anni è cresciuto del 50% passando da 6mila a 9mila miliardi di dollari.

Per il momento la situazione non sembra destare allarmi immediati. Questo perché una fetta consistente di questi nuovi debiti ha una scadenza lunga (in media la scadenza è di 10 anni) e, rispetto al passato, molte economie emergenti hanno accumulato consistenti riserve in dollari utili a far fronte ai propri debiti. Tuttavia, come ha sottolineato la stessa Bis, la situazione rischia di avere evoluzioni imprevedibili.

Il timore è quello di un circolo vizioso che potrebbe innescarsi a seguito del rialzo dei tassi negli Usa. La stretta monetaria infatti dovrebbe spingere gli investitori a fuggire dai Paesi emergenti con l’effetto di far svalutare le loro monete rispetto al dollaro. Una svalutazione che potrebbe intensificarsi qualora le aziende “emergenti”, che si sono indebitate in dollari, iniziassero a comprare valuta Usa (a caro prezzo) per poter onorare le proprie obbligazioni. Il tutto finirebbe così per amplificare a dismisura il problema e i rischi che esso comporta.

C’è poi un altro dubbio che riguarda l’affidabilità delle statistiche ufficiali. La stessa Bis avverte che ad oggi è impossibile fare una tracciamento preciso del cosiddetto «debito nascosto», cioè quello contratto per conto delle aziende da società controllate con sedi in Paesi “offshore”. Insomma la bolla potrebbe essere più grossa di quello che i numeri ufficiali ci dicono.

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TAG: Bri, Fed

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