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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2011 alle ore 06:47.

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A Wilhelm von Humboldt, CHE NEL 1810 FONDÒ L'ATENEO DI BERLINO, RISALE IL BINOMIO RICERCA E DIDATTICA
Quale università per i prossimi 20 anni? È una domanda di grande rilevanza per almeno tre motivi, alcuni strutturali e di lungo termine, altri invece contingenti. Contingente è il fatto che entro l'estate – al più tardi l'autunno – tutte le università italiane dovranno dotarsi di nuovi statuti; è uno degli obblighi introdotti dalla riforma. È quindi iniziata una fase costituente, i cui risultati definiranno gli atenei italiani per molti anni a venire.
Il secondo motivo – strutturale – è che ormai è impellente provare a definire una nuova idea regolatrice di università. Le università, infatti, continuano nominalmente a vivere nella scia del modello humboldtiano, dal nome del fondatore dell'Università di Berlino (1810), ovvero un'università che coniuga ricerca e didattica nel nome del progresso della nazione, con l'esplicito mandato di formare l'elite. Ma nel secondo dopoguerra quel modello è stato travolto da tre fattori, ovvero: la proliferazione di luoghi di creazione di conoscenza, l'università di massa e l'indebolimento degli stati nazionali a favore di spazi sovranazionali. Tutti e tre processi in linea di principio positivi, perché hanno rispettivamente diffuso il sapere, democratizzato l'istruzione superiore e ricreato uno spazio cosmopolita di docenti e studenti, ma che hanno anche reso necessario definire un nuovo modello di riferimento.
Infine il terzo motivo per cui è opportuno interrogarsi sul futuro dell'università è che anche gli atenei, come tante altre istituzioni, devono riflettere su come la Rete tocchi la loro missione e il loro modo di operare. Internet rappresenta solo un nuovo strumento, o invece modifica aspetti fondamentali? Come accogliere al meglio i nativi digitali?
Domande, come si vede, che da una parte inducono ad andare alle radici e dall'altra spingono a guardare al futuro.
In realtà, tuttavia, non stiamo semplicemente vivendo il crepuscolo del modello humboldtiano. Da circa trent'anni, infatti, una nuova idea di università si è affermata in numerosi paesi, partendo dal Regno Unito di Margaret Thatcher per arrivare all'Italia di questi giorni. Un nuovo modo di intendere l'università che in superficie non intacca il modello humboldtiano, ma che nella pratica contribuisce a sovvertirlo. Parliamo dell'università imprenditrice, ovvero, un'università in competizione esplicita con tutte le altre, con gli occhi fissi sulle graduatorie e pervasa da nuove parole d'ordine: eccellenza, innovazione, indicatori, studenti-clienti, produttività, ranking. Trasformazione che la Thatcher ottenne – ironicamente, per chi ama pensarla come purista del mercato – burocratizzando il rapporto tra Stato e Università. In particolare la Thatcher istituì burocrazie di valutazione impostate secondo modelli di provenienza business school. Dopo decenni di research assessment exercise (Rae) la situazione inglese è chiara: si pubblica quasi solo più nei modi e sugli argomenti che riceveranno un punteggio più elevato dalla burocrazia statale di valutazione. Ne va infatti non solo della carriera dei singoli ricercatori, ma anche della stessa esistenza di interi dipartimenti.
A questo modello – che naturalmente incorpora anche elementi positivi, come valutazione e innovazione, ma declinati in maniera tale da frantumare l'ethos accademico – è tempo di proporre alternative. Quale università nell'età della Rete? Cosa ha di unico da offrire l'università alle società del XXI secolo? Non è semplice rispondere, ma è urgente provare a farlo.
Per questo motivo chi scrive, insieme ad alcuni amici, anch'essi docenti universitari, ha lanciato Piazza Statuto (www.piazzastatuto.it), ovvero un sito web con contenuti rilasciati con licenza Creative Commons per favorire un pubblico dibattito sul futuro dell'università. Un dibattito che coinvolga non solo i professori, ma anche gli studenti e tutti coloro che si ritengano portatori di interesse nei confronti degli atenei.
Per chi scrive, il cuore dell'università è che si tratta di spazi pubblici dove uomini e donne che professano il loro pensiero su argomenti che hanno a cuore (i professori) si confrontano con giovani uomini e giovani donne che vogliono farsi coinvolgere, che vogliono essere indotti a riflettere (gli studenti). Tale confronto sprigiona potenza da più di mille anni. È a esso che bisogna tornare per capire come costruire il futuro.
Juan Carlos De Martin è co-direttore del Centro Nexa su Internet & Società del Politecnico di Torino
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