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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2011 alle ore 06:54.

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L'effetto Facebook può generare una convergenza improvvisa di interessi tra le persone riguardo una notizia, una canzone o un video pubblicato su YouTube. Di recente, mentre ero impegnato a scrivere questo libro, e non avevo prestato molta attenzione a giornali e telegiornali, ho notato che un mio amico aveva postato sulla sua bacheca un link che diceva: «Il Dow Jones sale del 3,5 per cento». In passato, avrei ricevuto quell'informazione tramite Yahoo! News, o l'avrei sentita alla radio o in televisione. Il settore economico dei videogiochi, che sta avendo un ruolo di primo piano nello sviluppo di Facebook, ha già compreso molti di questi fenomeni. I giochi migliori sfruttano l'effetto Facebook, riuscendo a coinvolgere fino a 50 milioni di utenti al mese. PlayStation, Xbox e Nintendo Wii erano le piattaforme di gioco delle generazioni precedenti; oggi tutte le console offrono la possibilità di connettersi a Facebook. Man mano che Facebook si avvicina al miliardo di utenti, viene da chiedersi se l'effetto Facebook non possa agire anche su scala molto più vasta: Facebook potrebbe contribuire all'unità di un mondo lacerato dalle lotte politiche e religiose e dalla crisi ambientale ed economica? Un sistema di comunicazione che riunisca persone di ogni nazionalità, etnia e religione non può essere una forza negativa, giusto? Non c'è persona più convinta del potenziale unificatore di Facebook di Peter Thiel, grande investitore contrarian che ha guadagnato milioni con il suo hedge fund, scommettendo correttamente sui futuri andamenti dei mercati azionari, del petrolio e delle valute. È anche un imprenditore, co-fondatore ed ex amministratore delegato del servizio di pagamenti online PayPal, che ha poi venduto a eBay. È stato il primo investor professionista a scommettere su Facebook, a fine estate del 2004, e da allora siede nel cda dell'azienda. «La tendenza principale degli investimenti nella prima metà del ventunesimo secolo dipenderà da come si realizza la globalizzazione», mi ha spiegato Thiel. «Se la globalizzazione non avviene, allora non c'è futuro per il mondo. Ci sarà un'escalation di conflitti e guerre, e dato il livello raggiunto oggi dalla tecnologia, il mondo salterà in aria. Non c'è possibilità di investire in un mondo in cui la globalizzazione fallisca». È un'idea sconcertante, soprattutto dato che proviene da uno dei più autorevoli investitori al mondo. «La domanda allora diventa: quali sono gli investimenti migliori che siano orientati verso una globalizzazione positiva. A quanto ne so, Facebook è forse l'espressione più pura di questa idea».
Sapevo poco di Facebook, finchè una persona che lavora nel settore delle public relations mi telefonò, a fine estate del 2006, per chiedermi se volevo incontrare Mark Zuckerberg. Prometteva di essere un incontro interessante, quindi accettai. In quanto responsabile delle pagine di tecnologia della rivista «Fortune» a New York, incontravo spesso i dirigenti delle aziende del settore. Ma quando quel ragazzo – all'epoca appena ventiduenne – mi raggiunse nel lussuoso ristorante italiano Il Gattopardo a Midtown Manhattan, all'inizio stentai a capacitarmi di avere di fronte l'amministratore delegato di un'azienda hightech in grande crescita. Indossava jeans e una t-shirt con il disegno stilizzato di un uccellino appollaiato su un albero. Sembrava così giovane! Poi apri la bocca: «Siamo un'impresa di pubblica utilità» mi disse, in tono serio e con linguaggio forbito. «Cerchiamo di incrementare l'efficienza con cui le persone possono comprendere il mondo che le circonda. Non cerchiamo di massimizzare il tempo che la gente trascorre sul nostro sito, ma di aiutare gli utenti ad avere un'esperienza positiva e a sfruttare al meglio quel tempo». Non aveva voglia di scherzare: si impegnava per richiamare la mia attenzione sulla sua azienda e la sua visione. E ci riuscì. Più lo ascoltavo, e più mi sembrava uno degli imprenditori e dei dirigenti – molto più anziani di lui – con cui parlavo regolarmente nel mio lavoro. Così gli dissi che mi sembrava nato per fare l'amministratore delegato. Lo intendevo come un grande complimento, e non era una cosa che dicevo a cani e porci. Ma lui parve offendersi: mi rivolse una smorfia di disgusto. «Non ho mai voluto gestire un'azienda», mi disse qualche minuto dopo. «Per me un'azienda è uno strumento che serve a ottenere risultati». Poi, per il resto dell'intervista, continuò a dire il genere di cose che solo i grandi leader visionari sono in grado di dire. Da quel momento mi persuasi che Facebook era destinato a diventare molto importante.
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