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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2011 alle ore 06:54.

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LE COMMUNITY SONO ALLEATE DELLE AZIENDE, PER Matthieu Chereau David Chang è sbarcato da sette anni nella Grande Mela. È lì che ha aperto Momofuku, un minuscolo ristorantino a conduzione familiare a Manhattan. David – per il «Time» una delle cento persone più influenti al mondo – la sua notorietà la deve anche alla rete: cura quotidianamente il suo blog con le videoricette e la community si rafforza grazie ai social network; su Facebook i clienti postano fotografie dei suoi piatti e solo online è possibile prenotare un tavolo. Da poche settimane David ha anche attivato delle app: ha comunicato la novità con un tweet. La sua community si allarga, anche se il ristorantino resta minuscolo.
Dal gourmet d'Oltreoceano ai sapori nostrani. La signora Anna da trent'anni ha un chiosco di due metri per due con annesso giardino. Prepara piadine al Lido di Classe, nel cuore della Romagna. I clienti più affezionati fanno check-in su Foursquare e si scambiano pareri sulle piade cucinate da Anna.
C'è un filo rosso che lega le stelle Michelin di David Chang e il chiosco della signora Anna ai brand che operano in rete: il posizionamento sui social network, espressione di democrazia partecipativa. Forse la signora Anna non lo sa, ma la sua community fa concorrenza a quella delle multinazionali. E potrebbe anche vincere la sfida nell'ecosistema digitale.
Così sui media sociali Davide può battere Golia. Accade con «Will it blend?», format low cost creato dalla piccola azienda americana di frullatori Blentec, che ha incrementato del 522% il proprio fatturato in un anno anche grazie alla community. I video mostrano il presidente dell'azienda intento a frullare ogni tipo di oggetto e a mostrare le prodezze del prodotto. Il format è un cult e alcuni video hanno superato dieci milioni di visualizzazioni.
La nuova generazione di community si presenta così, rigorosamente social. Apparse timidamente pochi mesi fa, ora si moltiplicano. Social community, vengono apostrofate. Multinazionali, piccole e medie imprese, terzo settore e persino Pubbliche amministrazioni scelgono di dialogare con il proprio pubblico scendendo nell'agone digitale. Facebook, Twitter, LinkedIn e Foursquare sono i canali più gettonati. Ma la socialità si moltiplica anche grazie a YouTube: è nel colosso di condivisione video che si annidano molte community. «Grazie a Facebook migliaia di aziende hanno potuto posizionarsi sui social network, fare pubblicità e incrementare i propri contatti: in una parola hanno potuto fare business», sostiene David Kirkpatrick, autore di «Facebook la storia», appena uscito per Hoepli.
Il suo Facebook-effect passa per questa idea di ingaggio. D'altronde nell'analizzare le piattaforme di social tv anche l'Università Bocconi è arrivata alla conclusione che partecipazione attiva sincrona e verticalizzazione dell'offerta rappresentano le killer application del successo sul web. Nello studio – effettuato su un campione distribuito tra Europa e America (60% Oltreoceano, il restante 40% da noi) – i ricercatori hanno dimostrato come i canali fidelizzino il pubblico facendolo interagire. «I social network offrono agli inserzionisti nuove possibilità di fornire contenuti personalizzati, raggiungendo target mirati e comprendendo preferenze d'acquisto», precisa Margherita Pagani dell'Università Bocconi.
Non solo social network, però: in un post su Technium.com Kevin Kelly ha descritto i «mille veri fan» come chiave del successo della community. Per Kelly solo mille autentici fan costituiscono una tribù. Perciò meno siamo e meglio stiamo. Ma il pollice del "i like", espressione dell'indice di gradimento, deve essere rigorosamente su.

giampaolo.colletti@altratv.tv

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www.willitblend.com

www.momofuku.com

www.kk.org/thetechnium

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