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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2011 alle ore 15:40.

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In America Facebook scende in campo a fianco degli avvocati e delle squadre di investigazione. Un fenomeno in crescita anche in Italia, ma che oltreoceano sta radicalmente cambiando le tecniche di indagine.
«È assolutamente incredibile quello che la gente pubblica su Facebook senza pensarci», spiega l'avvocato penalista Shaun Patrick Willis partner dello studio Willis Law di Kalamazoo nel Michigan.

«In America le squadre di investigazioni contro il narcotraffico e la polizia usano molto Facebook per le loro indagini. Anch'io utilizzo i social network per lavoro. Cerco informazioni che possano aiutare il mio cliente, testimoni e anche elementi che possano smontare l'affidabilità della mia controparte nel processo». «Proprio di recente – continua l'avvocato – uno dei miei clienti è stato accusato di omicidio causato da guida in stato di ebrezza. La polizia ha cercato di ricostruire la dinamica dei fatti attraverso Facebook, monitorando così gli ultimi spostamenti del mio cliente (casa, bar, strada percorsa). Io, invece, sto usando il social network per cercare testimoni che possano aiutare il mio assistito ed eventualmente assolverlo. Da quando c'è Facebook la ricerca delle prove è più semplice».

L'avvocato Matthew D. Asbell dello studio Ladas & Parry di New York, invece, si occupa di proprietà intellettuale e racconta: «L'utilizzo sempre più diffuso dei social network sta mettendo a dura prova la tutela dell'immagine delle aziende. L'uso incontrollato dei marchi e la critica (spesso ai limiti della diffamazione) dei clienti rendono difficile una piena tutela dell'immagine delle aziende. I proprietari cercano di mantenere il controllo sui loro brand e sulla loro reputazione nei social media, ma l'effetto moltiplicatore dei motori di ricerca rende ancora più difficile il monitoraggio, con la conseguenza di un danno grave per molte società».

Non solo. In America il reato di diffamazione per gli utenti del web cede il passo quasi sempre alla libertà di espressione, tutelata dal primo emendamento della Costituzione.

«Molti Stati americani – spiega l'avvocato penalista del Connecticut, Norm Pattis – stanno applicando ai casi di cyberbullismo il reato di molestie, proprio per evitare che molti casi restino impuniti e che il web si trasformi in un terreno senza regole. D'altra parte anche in America (come in Italia per il reato di diffamazione n.d.r.) non esiste una responsabilità penale dei provider e di chi gestisce una pagina web come invece accade per i direttori dei giornali. Spesso gli autori inviano commenti denigratori in forma anonima e nessuno ne risponde. Su questo credo che la legge debba subire delle modifiche».

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