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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2012 alle ore 08:24.

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di Luca De Biase
In un canovaccio per commedia dell'arte, il marito accusato di aver ucciso la moglie si difende dicendo: «Non sono stato io. È stato il coltello». Oggi, in pieno boom delle neuroscienze, Herbert Weinstein, manager accusato di aver strangolato la moglie si è difeso dicendo: «Non sono stato io, è stato il mio cervello». In effetti, il suo avvocato ha portato le prove di una menomazione alla membrana aracnoide che poteva renderlo non responsabile della sua condotta. Ne parlano Andrea Lavazza e Luca Sammicheli nel libro in uscita per Codice edizioni intitolato "Il delitto del cervello".
Sammicheli, giurista e psicologo, e Lavazza, scienziato cognitivo, avvertono che l'ammissibilità nei processi di questo genere di prove, basate sulle immagini del cervello, non è per scontata. Ma il fenomeno si diffonde. «Un verdetto emesso a Como nel maggio del 2011 è stato interpretato come un passo verso l'accettazione dell'idea che gravi disfunzioni cerebrali, accertabili solo con i nuovi strumenti di neuroimmagine, possano fare diminuire la responsabilità penale di soggetti che altrimenti sarebbero ritenuti pienamente consapevoli del proprio operato criminale». Si può valutare se un accusato è capace di intendere e di volere in base a tecniche di osservazione e a interpretazioni dei dati che sono frutto di ricerche piuttosto recenti e, in parte, discusse?
Da un certo punto di vista, i modelli che spiegano i risultati delle nuove tecniche di neuroimaging si descrivono facendo ricorso a metafore. Che non devono diventare stereotipi, soprattutto facendo divulgazione o applicandole in sedi esterne alla ricerca, come appunto i tribunali. La più diffusa è quella che assimila il cervello a un computer. La usa anche Gary Marcus in "La nascita della mente" (Codice 2008), ma precisa: «la natura ci ha fornito un dispositivo» che si «organizza da se» ma si può «raffinare e ricalibrare ogni giorno». Elkhonon Goldberg, in "La sinfonia del cervello" (Salani 2010), preferisce un'altra metafora: i lobi frontali sono come i direttori di un'orchestra: presiedono anche alla direzione morale delle decisioni, tanto che quando sono lesionati, il paziente può apparire più disinibito dal punto di vista emozionale. Ma anche Goldberg dà conto di un processo evolutivo: «La capacità di esercitare un controllo volizionale sulle proprie azioni non è innata, ma emerge gradualmente nel corso dello sviluppo».
Il punto sembra essere che il funzionamento del cervello è correlato al comportamento, ma lo è anche l'educazione e l'allenamento specifico dei neuroni e delle sinapsi. Il che in fondo è responsabilizzante. Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, in "Neuro-mania" (Il Mulino 2009) contestavano il determinismo biologico del pensiero avvertendo che le neuroscienze stanno facendo grandi avanzamenti per capire "dove" avvengono i correlati neurofisiologici dei processi mentali, ma non "che cosa" è la coscienza e "come" si sviluppa il pensiero. Attenzione, dunque: se osserviamo una macchina che descrive un cervello siamo tentati di pensare che il cervello sia una macchina. Nicholas Humphrey, nel suo finissimo libro, "Rosso" (Codice 2007), scriveva che la coscienza è qualcosa che facciamo con il nostro cervello e non è il nostro cervello. Il comportamento discende dalla maturità culturale, dall'educazione giuridica, dalla sensibilità, non solo dall'istinto animale: la libertà esiste.
Il titolo del nuovo libro di Jonah Lehrer, autore di "How we decide" (2009) e del l'imminente "Imagine", sul rapporto tra neuroscienze e creatività, suggerisce un altro argomento: chi affermasse che non siamo responsabili delle nostre colpe perché in realtà lo è il cervello, dovrebbe ammettere che non abbiamo neppure diritto alle nostre gratificazioni. E l'autore di questo articolo non ne sarebbe né meritevole, né colpevole.
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