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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 08:20.

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di Luca Tremolada
Non sono disillusi, sono cinici. Avere diciotto anni in Italia e l'ambizione di aprire un'azienda è un atto eroico. «Mica volevo diventare ricco, solo dare un supporto alla pubblica amministrazione per un servizio che in Inghilterra è finanziato direttamente dal governo». Non si lamenta, anzi ci scherza su Andrea Stroppa, fondatore di Uribu.com, un sito che sarebbe piaciuto a Mario Monti perché vuole denunciare disservizi e sperperi del settore pubblico. Quelli come lui sono una specie a rischio. La crisi ha cancellato 224mila aziende nei primi sei mesi dell'anno e ha ridotto dal 2008 del 13,5% la quota di giovani imprenditori under 30. In giro in Italia ci sono «cinque-diecimila giovani con business plan alla mano. Gente che hanno anche lasciato un posto fisso», commenta Gianluca Dettori fondatore di Dipixel e tra i maggiori esperti del capitale di rischio nostrano.
Un mercato sempre più asfittico. Secondo il Global Venture Capital and Private Equity Country Attractiveness Index 2012, l'Italia ha perso negli ultimi quattro anni due posizioni scendendo al 30° posto. In pratica, se si tiene conto di fattori tra cui l'attività economica, il livello di tassazione e il contesto sociale il nostro Paese è sempre meno appetibile.
«Da sei anni - osserva Dettori - mi occupo di raccogliere fondi da investire in start up e ogni anno è sempre più faticoso. Non mancano fondi pubblici per l'innovazione, quelli sono soldi che non arrivano mai agli startuppers. Mancano invece gli investitori istituzionali, banche e istituzioni, interlocutori per chi di professione sa riconoscere le aziende di valore». «La misura più urgente è dare liquidità al sistema», concorda Diana Saraceni venture capital di 360° Capital Partners. A parte un paio di istituti, in Italia non ci sono banche che guardano concretamente al mercato dell'early stage». Anche per lei istituire un Fondo di Fondi potrebbe essere un primo passo. Ma ancora meglio, suggerisce, sarebbe seguire le orme francesi. Per diventare il primo paese europeo per capitale di rischio l'Eliseo negli anni ha messo in atto una serie di provvedimenti. In primis è riuscito a mettere intorno a un tavolo banche e assicurazioni e li ha convinti a distrarre una parte del loro capitale in asset management in fondi di investimento di venture capital. L'opera di "moral suasion" è stata poi accompagnata dall'impegno del Tesoro e della loro Cassa dei depositi e prestiti francese a immettere direttamente liquidità in un Fondo dei Fondi, stimolando così la partecipazione dei privati.
Il modello francese tuttavia per quanto virtuoso è forse il più vicino a noi ma certamente non è l'unico. In Germania sette anni fa hanno lanciato un programa di coinvestimento pubblico-privato che però non ha dato i risultati sperati (fa eccezione Berlino che sta diventando la capitale europea delle startup). In Gran Bretagna invece esiste una "foresta" di investitori informali che rende quel mercato geneticamente diverso da quello nostrano. Stesso discorso vale per gli Stati Uniti.
«L'Italia non sarà mai la Silicon Valley», sorride Fadi Bishara, fondatore dell'acceleratore Blackbox in quel di San Francisco. Bishara, che il 27 settembre sarà a Roma per Techcrunch Italy, evento dedicato alle startup organizzato con Populis racconta di aver appena finito di girare in lungo e in largo l'Europa e l'Asia in cerca di imprese innovative. «Avete idee, ingegneri e scienzati di alto livello, ma vi manca lo spirito imprenditoriale. È un problema di mentalità: fallire in Europa è ancora considerato un dramma, mentre negli Usa tempra il carattere. Le stock option come strumento per coinvolgere i dipendenti nel capitale da voi sono osteggiati sotto il profilo fiscale. E poi manca sopratutto il trasferimento università-impresa sul modello Stanford o Mit. Mancano luoghi capaci di aggregare competenze e business».
Quella di Bishara è la solita bocciatura su tutta la linea grondante di mistica californiana da imprenditore "alfa". Purtroppo però anche il rapporto Ambrosetti di quest'anno non ci va giù delicato e certifica che l'interfaccia ateneo-imprese fa acqua da tutte le parti. La foto è quella di un continente per vecchi che sta perdendo terreno rispetto ai Paesi emergenti sia in termini di brevetti che di capitale umano.
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Eppure, nonostante il rapporto Ambrosetti sull'ecosistema per l'innovazione parli espressamente di paradosso europeo, è proprio dall'università che arrivano segni in controtendenza. «Le pubblicazioni scientifiche confermano che siamo ben saldi ai massimi livelli nella comunità scientifica – sostiene Nicola Redi di TTVenture –. Brevettiamo meno ma siamo più attenti alle licenze e alla qualità mentre cresce la percentuale di spin-off che vendono prodotti». Tra pochi giorni uscirà il decreto sviluppo bis del ministro Corrado Passera che contiene il pacchetto di misure di incentivo sulle startup, ma i giovani imprenditori nel frattempo non sono rimasti con le mani in mano.
Viamente, piccola startup recentemente acquisita da un colosso Usa per 4,5 milioni di dollari, ha dimostrato che siamo capaci di creare software. CircleMe e Cibando insegnano che allearsi può far comodo. Corrono da sole. Resistono sul mercato, discutono su Facebook dentro le community di Indigeni digitali o StartupBusiness, si sostengono dimostrando coi fatti che l'Italia non è un paese per statup, ma dovrà diventarlo.
luca.tremolada@ilsole24ore.com

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