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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2012 alle ore 08:20.

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di Giampaolo Colletti
L'azienda di Boris Bandyopadhay, imprenditore e designer tedesco, è grande quanto la Germania. I poli produttivi del suo mobilificio sono dislocati in ogni angolo degli Stati federali a seconda delle materie prime disponibili e delle competenze professionali nel pensarle e lavorarle. Grazie alla rete, Alvari - questo il nome dell'impresa - diventa un hub, dove non ci sono più subfornitori, ma di fatto pezzi di impresa distribuita. La rivoluzione copernicana rappresentata dalla peer production sta proprio in questo uso consapevole delle nuove tecnologie in azienda e nella necessità di trovare soluzioni a crisi di sistema. Così le filiere si semplificano, diventano più corte e sostenibili. E mettono in contatto chi produce con chi compra.
Non è un diverso modello di produzione, ma un diverso modello di impresa. «La peer production è come un salmone: risale la corrente del valore da valle fino a monte. È una moderna risposta organizzativa al mutato sistema di coordinamento tra domanda e offerta che si sta affermando sul mercato dei consumatori finali, sempre più basato sull'e-commerce e sull'interazione digitale. Da lì esso si riverbera a monte, nella filiera di ricerca, produzione e distribuzione», afferma Carlo Alberto Carnevale Maffè dell'Università Bocconi. Cambia quindi anche il mestiere dell'imprenditore: «Non più solo organizzazione dei fattori di capitale e lavoro, ma anche dei meccanismi di coordinamento tra i diversi "peers"». Dinamiche che stravolgono le filiere tradizionali, configurando uno scenario di manifattura distribuita, con prodotti pensati e realizzati ovunque. «Non ci si basa più sul territorio, ma sulla condivisione di un protocollo di interscambio di attività parcellizzate, così da richiedere solo un minimo livello di controllo», precisa Carnevale Maffè.
Ecco perché la peer production nasce in contesti basati sul lavoro collaborativo. «Da noi si registra un ritardo ma ora c'è più consapevolezza» , ha spiegato Massimo Menichelli dell'Aalto University durante il meeting Cna Next dei giovani imprenditori Cna, incentrato sulle intelligenze collettive. Nel mondo alcuni casi hanno fatto scuola: in India è attiva da decenni Amul, una rete di cooperative che collega i piccoli allevatori e ha consentito al Paese di diventare primo produttore mondiale. «Con le dinamiche peer to peer si è operato sulla gestione dell'industria un tempo monopolistica e oggi aperta a tre milioni di allevatori», precisa Menichelli. Per Carnevale Maffè a guidare l'innovazione sono tuttora gli Usa. «In particolare le aree della costa nord-orientale e occidentale, dove esiste una tradizione di modelli aggregativi tra imprese e professionisti. L'Italia, che pure avrebbe una grande tradizione di imprenditorialità, è oggi sfavorita da una legislazione fiscale avversa e dalla scarsa massa critica della domanda».
Qualcosa però sta cambiando e la peer production arriva a lambire i distretti nostrani, che tentano di convertirsi da analogici a digitali. Alla base ci sono nuove strutture reticolari che coinvolgono anche i piccoli player. «Le Pmi cercano sentieri ancora poco battuti per aumentare produttività e posizionamento su mercati esteri», precisa Andrea Di Benedetto, presidente giovani imprenditori Cna. Così non si ha più bisogno di distretti localizzati merceologicamente, ma di produttori che si coordinano grazie alla rete. «Un tempo l'artigianato era legato a mercati specifici. Oggi si aprono spazi che ti obbligano a internazionalizzare». Nascono così cooperative segnate dall'alleanza tra produttori e consumatori più consapevoli. In Toscana due trentenni hanno acceso Jenuino, che attualmente consorzia 120 aziende agricole dell'area maremmana. L'obiettivo è semplificare la filiera. «Abbiamo costruito un social commerce che permette di scambiare pareri e saperi, gli utenti possono interagire con l'azienda agricola e ogni impresa ha una pagina profilo», racconta Giacomo Bracci, uno dei fondatori. Grazie al network oggi viene lavorata una razza suina con basso livello di colesterolo scomparsa in passato perché poco sostenibile per la grande distribuzione. Non è solo un cambio di paradigma esterno all'azienda. Si ridefiniscono i rapporti anche interni. Getta luce sulle imprese orizzontali la ricerca Cfmt e ManagerItalia. I dati raccontano l'impresa collaborativa ma evidenziano uno scenario ancora in chiaroscuro: a oggi il 70% ha una struttura "top-down". La strada per la condivisione è ancora in salita.
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