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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:14.

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di Luca Salvioli
La storia di Sean Parker dice molto di quel che è successo alla musica negli ultimi 15 anni. Lo smaliziato imprenditore della Silicon Valley - reso celebre dal film The Social Network, parte del team che contribuì alla fortuna di Facebook - fonda Napster nel 1999. I discografici se lo ricordano come un anno maledetto. È l'inizio del download illegale, del calo a doppia cifra dei fatturati, anno dopo anno. Dieci anni dopo, è il 2009, scopre Spotify, neonato servizio svedese di musica streaming. Entra nel capitale e nel board. C'è una differenza rilevante rispetto a Napster: è legale, condivide i ricavi pubblicitari e gli abbonamenti con le etichette.
La musica è stata la prima industria a conoscere l'impatto travolgente di internet sul modello di business tradizionale. Ora, per prima, sta trovando un punto di equilibrio e diventa fonte di ispirazione per il video e l'editoria. iTunes, nel 2003, ha rappresentato un punto di svolta. Ora è il momento dello streaming. Spotify ha debuttato in Italia pochi giorni fa, ma già nel 2012 il giro d'affari legato a questo modello nel nostro Paese è cresciuto del 77 per cento. L'avvento di reti veloci sui cellulari rende l'ascolto di musica davvero on demand: basta scegliere un brano sul cellulare, andare alle playlist, condividerle con gli amici sui social network. Il cloud computing permette, con iTunes Match e Google Play, di ascoltare i brani scaricati da ogni device. È un'opportunità, e anche Amazon ha deciso di non farsela sfuggire. Ci sono poi i servizi degli operatori, come Cubomusica di Telecom Italia per gli utenti adsl. E il download? Continua a correre, visto che iTunes ha appena raggiunto il traguardo di 25 miliardi di canzoni scaricate, però anche Apple potrebbe presto puntare sullo streaming.
I vantaggi per gli utenti sono evidenti. Per l'industria e gli artisti? Qualche anno fa si diceva che internet avrebbe disintermediato il mondo della musica, favorendo i cantanti. Per ora non è successo. Spesso lamentano la scarsa retribuzione, mentre le piattaforme tecnologiche sono protagoniste e nella stragrande maggioranza dei casi contrattano con le etichette discografiche. Quanto al settore nel suo complesso, ci sono alcune isole felici. Una è la Svezia, dove da cinque anni le vendite complessive hanno invertito la curva discendente grazie a internet. A livello globale, invece, il dato più recente fornito da Ifpi, che rappresenta l'industria discografica nel mondo, risale al 2011: 16,6 miliardi di dollari, in calo del 3% rispetto al 2010. Il digitale è cresciuto dell'8% e rappresenta il 31% dei ricavi. I tempi del calo a doppia cifra sono lontani e la svolta (ovvero la parità anno su anno) potrebbe essere vicina. «Si troverà, con il digitale ma anche con altri proventi che stanno crescendo, come diritti, sponsorizzazioni e merchandising – commenta Enzo Mazza, presidente di Fimi (Federazione dell'industria musicale italiana) – va però detto che l'economia complessiva del settore rispetto al 2000 è calata del 50 per cento»
In Italia, secondo Fimi, nel 2012 il fatturato è stato di 150,9 milioni di euro, in calo del 5% sul 2011. Il digitale vale il 24%, il mercato fisico il 55%. Corre lo streaming (+77%), che della torta digitale vale il 22%, cresce il download (+25%) per una quota del 61%, il resto abbonamenti. La pirateria non è morta: su internet un utente su 4 accede a piattaforme illegali. Prima di Spotify, a dicembre 2011 in Italia è arrivato Deezer: 26 milioni di utenti registrati in 182 paesi, stessa offerta commerciale di Spotify (pubblicità, oppure abbonamenti dai 4,99 ai 9,99 euro al mese) e un accordo recente con Samsung, Lg e Toshiba per portare la musica anche sulle smart tv. Un grande protagonista del mercato sta diventando YouTube. Gangnam Style, il video record del coreano PSY con oltre 1,3 miliardi di click, ha generato ricavi per 8 milioni di dollari. Esempio eclatante di un modello in Italia avviato dal 2010 dopo l'accordo con Siae che permette le partnership con i detentori dei diritti. Gli introiti pubblicitari vengono spartiti tra Google e le etichette, che a loro volta hanno accordi con gli artisti. «Viene fornito ai partner la possibilità di utilizzare la nostra tecnologia "Content ID" che setaccia tutti i video di YouTube in cerca di tracce uguali – spiega Chiara Santoro, strategic partnership manager di YouTube per la musica –. A quel punto si può scegliere se bloccare e rimuovere il contenuto oppure monetizzarlo con la pubblicità che va al detentore dei diritti. La scelta più comune». I singoli accordi sono confidenziali, dipendono da etichetta e Paese. «Il 70% delle nostre entrate va alla discografia: 500 milioni di dollari fino a oggi e ne prevediamo altrettanti entro fine 2013» dice Veronica Diquattro, responsabile italiana di Spotify.
@lucasalvioli
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