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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:19.

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Luca Dello Iacovo e Alessia Maccaferri
Ciò che è mio è tuo. Con questo claim tre anni fa gli imprenditori Rachel Botsman e Roo Rogers hanno proclamato la nascita di una nuova epoca del l'economia, quella del consumo collaborativo che, dopo la crisi finanziaria americana del 2008, ha dato risposte nuove ai bisogni. Logiche antiche come la condivisione, il baratto, il prestito, lo scambio, l'affitto, la donazione e il noleggio (anziché il possesso) hanno trovato una seconda vita grazie alle tecnologie. Tanto che «Forbes» stima che durante quest'anno la sharing economy genererà un fatturato di 3,5 miliardi di dollari.
Che si tratti di case, auto, talento o tempo, la chiave della partecipazione delle persone alla produzione o al consumo è la fiducia. Recensioni e voti alimentano una cultura dei dati radicata in modo profondo grazie alle applicazioni software progettate per il web e per i dispositivi mobili. Attivano circoli virtuosi mediante la collaborazione delle persone che valutano la qualità dei servizi.
Il direttore dell'Edge Lab della Princeton University, Mung Chiang, ha esaminato in che modo le persone costruiscono la fiducia attraverso una piattaforma online: è un meccanismo che comprende rating (come i voti), review (ad esempio i commenti), review of reviews (i pollici verso l'alto o il basso applicati alle opinioni). Inoltre la reputazione dei partecipanti diventa una carta d'identità per mettere in comune risorse, anche tra pari (peer to peer).
Nell'economia della condivisione, abilitata da web e app, la prova sul campo avviene nelle città. Secondo il report City 2.0 di Ted la sharing economy è una strategia di pianificazione urbana e incrementa l'efficienza nelle transazioni. AirBnb e Couchsurfing sono spazi per affittare stanze e abitazioni: gli utenti commentano l'esperienza del soggiorno e segnalano eventuali limiti. Non poche volte i proprietari delle case intervengono per rispondere alle richieste e migliorano la qualità della permanenza dei successivi inquilini. È un circolo virtuoso. In questo modo aumentano la loro affidabilità e reputazione nella community. A semplificare la mobilità urbana sono app lanciate dalle aziende locali dei trasporti e da imprese innovative. Ad esempio Brescia, Milano, Roma, Torino hanno app per il bike sharing, integrato con stazioni della metropolitana. La startup Okobici scommette su una rete peer to peer destinata alla condivisione di biciclette. Al noleggio di automobili (ad esempio le black car) guidate da un autista punta Uber, sbarcato da poco nel capoluogo lombardo: l'app mostra in tempo reale le vetture nelle vicinanze.
La via italiana alla sharing economy ha anche un'impronta sostenibile. Recyproco è una startup che ha progettato una piattaforma di social commerce per facilitare il riuso e lo scambio, calcolando le emissioni equivalenti di anidride carbonica. Nel quartiere Bovisa di Milano si moltiplicano le esperienze di community gardening, valutate dal pubblico online su blog e social network.
L'onda grossa della sharing economy sta arrivando quindi in Italia. «L'anno scorso le startup si contavano sulle dita di una mano – spiega Marta Mainieri, autrice di «Collaboriamo!» appena pubblicato per Hoepli – ora sono quasi un centinaio, considerando quelle solo digitali. Ma si parlano poco, mentre collaborando nel co-marketing e nello scambio di best-practice potrebbero avere maggiori opportunità». E l'Italia sembra pronta ad accogliere la tendenza: «AirBnb ha il tasso di crescita più alto in Europa, il team italiano di Etsy è numerosissimo, sebbene non vi sia neanche una sede italiana della società; l'Italia è per The Hub la nazione con il maggior numero di sedi per città» ricorda nel libro Mainieri. Ma come ogni economia che si fa avanti scompiglia vecchie logiche. «Io la definisco la rivoluzione industriale delle relazioni, che col digitale diventano scalabili, replicabili. Potenzialmente l'effetto può essere devastante» spiega Francesco Saviozzi, professore di Strategia alla Sda Bocconi. Prendiamo l'esempio di Linkedin, che ha sostituito una parte del lavoro delle agenzie di selezione del personale. «Gli utenti riunciano a un pezzetto di privacy in cambio di visibilità – aggiunge Saviozzi – e aziende e business developer hanno servizi a pagamento». Ora le agenzie di selezione del personale non hanno più il monopolio dei curricula e devono puntare su altri servizi, come la relazione fisica con l'utente.
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La disintermediazione cambia quindi le logiche del gioco. E anche le regole. Come nel caso dell'affitto o scambio di case private tra privati. Cosa fare se l'ospite non lascia l'appartamento? Come si dichiara questo reddito al fisco? Negli Stati Uniti, diversi contenziosi hanno aperto il dibattito. E alcuni Comuni, da San Francisco a New York, stanno regolamentando il settore. Questioni per ora senza risposte si profilano anche nella proprietà intellettuale. «Se un progetto di innovazione creato su una piattaforma con il contributo di una community diventa prodotto editoriale, a chi vanno i diritti d'autore?» si chiede Saviozzi.
Prendiamo infine uno dei settori di punta della sharing economy italiana, l'hardware e il software open source. «Abbiamo alla spalle la grande eredità dell'artigianato e del design. L'Italia è a livelli avanzati nel settore» spiega Simone Cicero, fondatore dello think tank Hopen, che fa parte di OuiShare, il network che organizza a maggio a Parigi il primo summit europeo della sharing economy. «Eppure ci sono molti ostacoli. Per esempio, mettere una tagliatrice laser in un FabLab in Germania non crea problemi, in Italia sei passibile di denuncia. Ci sono molti aspetti di questa nuova economia che dovranno essere oggetto di deregulation».

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