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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:12.

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L'anno scorso l'ufficio brevetti degli Stati Uniti ha rilasciato 4000 "patent" nanotecnologici. Si tratta di un record, in netta crescita rispetto agli anni precedenti: 3439 nel 2011, 2770 nel 2010, 1449 nel 2009. Numeri che riferiti a un territorio immenso e ad altissimo contenuto scientifico come le nanotecnologie fanno riflettere. E fanno pensare che se da un lato siamo davanti a un'emozionante alba di innovazione tecnologica, dall'altro c'è il rischio che per la fretta di brevettare scoperte potenzialmente molto remunerative si ottenga l'esatto contrario, cioè si freni lo sviluppo e l'innovazione.
Le controversie sulla brevettazione sono iniziate coi software, poi hanno coinvolto le biotecnologie e la genomica diventando via via argomento di editoriali, ma anche di procedimenti giudiziari. Ora, è la nanotecnologia a diventare il nuovo campo di battaglia sui brevetti. Joshua Pearce, della Michigan Technological University, in maniera esplicita sostiene in un editoriale su Nature la necessità di un approccio open source alla ricerca nanotech. La posta in gioco, sostiene, è la crescita di un settore che potrebbe generare migliaia di miliardi di dollari nel giro di pochi anni. Questa "corsa all'oro" – come la definisce Quentin Tannock, analista dell'Università di Cambridge – ha portato a una "frenesia da brevetto", soprattutto nel settore dei nantotubi di carbonio. Ma c'è anche chi sostiene che l'idea di impantanarsi nella palude dei brevetti sia un falso problema, perchè a spingere davvero il mercato è il successo della tecnologia e non l'assenza o meno di proprietà intellettuale. Eppure in Norvegia è successo che un ufficio di trasferimento tecnologico che aveva trovato il modo di introdurre gli acidi nucleici nelle cellule viventi con nanotubi di carbonio abbiano dovuto abbandonare il progetto perchè non è stata in grado di trovare un mezzo alternativo non protetto da brevetto. Per contro, il sito nanohub.org, istituito nel 2002 coi fondi del National science foundation (Nsf) fornisce programmi di simulazione basati su software open source per la ricerca sulle nanotecnologie e il suo contenuto è utilizzato da centinaia di università in tutto il mondo. In Germania, invece, il team Sxm dell'Università di Münster fornisce istuzioni gratuite per la costruzione di un microscopio a scansione a effetto tunnel.
Insomma, là fuori – nel nanomondo – è una giungla, e come si diceva un grande business. Secondo un rapporto di Cientifica, i governi di tutto il mondo, nell'ultimo decennio, hanno investito più di 65 miliardi di dollari nel campo delle nantotecnologie. E il settore ha contribuito con oltre 250 miliardi di dollari all'economia globale nel 2009 e dovrebbe toccare secondo gli analisti di Lux Reasearch i 2400 miliardi di dollari nel 2015.
Per uscire da questa palude, l'open source è davvero la soluzione? Lo abbiamo chiesto ai rappresentanti di quattro diversi mondi della ricerca: università, centro di ricerca, Pmi e multinazionale. «Da ricercatore – risponde Massimiliano Cavallini, della Scriba nanotec, spin off del Cnr – la modalità open source offre più possibilità anche se il paragone con il libero accesso del software non è fattibile perchè la ricerca in nanotecnologie richiede anche infrastrutture e fondi in quantità, senza i quali non è possibile sviluppare tecnologie». Guglielmo Lanzani, del Politecnico di Milano oltre a fare ricerca rappresenta anche l'area accademica: «il mio Dna è quello di comunicare il più in fretta possibile tutto ciò che viene scoperto, per me quindi il brevetto è un ostacolo, anche se capisco la volontà di difendere l'invenzione e l'inventore. Penso però che la ricerca di base sia pubblica e porre dei limiti a ciò che è finanziato da tutti per lo sfruttamento di pochi non è propriamente corretto. L'altro aspetto è che l'open innovation è un enorme e veloce strumento di sviluppo tecnologico, quindi sarebbe un bene avere meno controlli. Senza arrivare a zero, perché in questo caso vincerebbe il più forte». Per Roberto Giannantonio, a capo della ricerca e sviluppo della Seas, «occorre distinguere tra la ricerca fondamentale, che deve essere più ampia e diffusa possibile, e la ricerca applicata». Salvatore Majorana, direttore del Technology transfer dell'Iit di Genova «Forse dovremmo chiedere alle autorità di rivedere la logica con cui si accettano i claim. Bisogna evitare di brevettare l'uso di conoscenze di base, che sono molto ampie e "totipotenti" e brevettare solo prototipi e prodotti. Questo sarebbe più accettabile».
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