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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 14:27.

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Non tutte le startup sono create per essere uguali. È la morale di un paper scientifico della Kauffman Foundation dal titolo "La favola dei due imprenditori" che chiama in causa direttamente l'Italia. Secondo l'autore Bill Aulet, direttore del Martin Trust Center for Mit Entrepreneurship esistono due tipi di piccole imprese, quelle tradizionali radicate sul territorio che danno occupazione e rispondono a bisogni locali (Smes).

E le startup (Ides) che guardano a un mercato globale, usano tecnologie e processi innovativi, all'inizio perdono soldi ma se hanno successo posso creare «centinaia o migliaia di posti di lavoro altamente qualificati». Gli autori dello studio sostengono, teorie e grafici alla mano, che le seconde sono quelle su cui puntare e rivolgono un appello ai nostri «confusi» policy maker che non stanno certo dando una mano. Gli imprenditori, scrivono, «restano piccoli, si trincerano dentro i proprio recinto, scoraggiati da politiche del governo che non sostengono la crescita». Nulla che non sapessimo già ma le favole qualcosa di vero lo raccontano sempre.

L'uscita di questo paper ha anticipato di qualche giorno Wwworkers Camp, evento che ha idealmente festeggiato i tre anni di un esperimento nato con Nòva24 a Radio 24: raccontare le storie di chi aveva scelto di mollare tutto e mettersi in proprio, lavorarando con e dentro la rete. Una mossa da pionieri: nel 2010 il tasso di disoccupazione stava all'8,4% (oggi è all'11,9) nessuno parlava di Agenda Digitale e i politici che pronunciavano la parola web erano considerati poco più di giovani Nerd.

«In tre anni – racconta Giampaolo Colletti ideatore del meeting bolognese – abbiamo raccontato le storie di 2mila lavoratori». Sono storie di liberi professionisti, freelance, artigiani che hanno abbracciato la rete per vendere online e posizionarsi, storie di piccoli imprenditori che hanno deciso di internazionalizzare la loro azienda grazie alle nuove tecnologie. Sembra un'altra favola bella del web ma non è così. Almeno il 20% di questi wwworkers in questi tre anni si sono persi per strada. «Abbiamo bisogno di un grande piano di sostegno, non economico ma infrastrutturale, abbiamo necessità di liberare l'e-commerce e sostenerlo con una tassazione più bassa, di investire sul wi-fi, di attuare politiche di alfabetizzazione da realizzare in sinergia con le Pa locali e con le organizzazioni di categoria». Quello che sopratutto oggi manca, spiega un po' avvilito, è consapevolezza del digitale da parte della classe politica e degli stakeholder istituzionali.

Questa generazione di artigiani, contadini, startuppers e professionisti della rete resta una realtà incompresa, minimizzata rispetto ai lavoratori "tradizionali" e largamente sottostimata.
Eppure, oggi i numeri per misurarli non mancano. La Internet Economy pesa in Italia solo il 2% del Pil contro un valore tra il 4% e il 7% dei paesi europei. Se venissero adottate tutte le indicazioni dell'Agenda Digitale (quella europea ne elenca 101), Bruxelles stima che nel 2020 potrebbero nascere quasi 4 milioni di nuovi posti di lavoro. Il Politecnico di Milano ha calcolato che un inserimento nell'ecosistema italiano delle startup di 300 milioni di euro (pari al fondo che in Germania ha innescato un circolo virtuoso una decina di anni fa) può portare ad un incremento di occupazione tra 30mila e 60mila nuovi addetti. «Sono lavoratori di grande valore, occupandosi di innovazione – commenta Andrea Rangone del Politecnico di Milano –. Sembrano numeri piccoli ma in realtà è un volano virtuoso che si attiva». «Gli studi di cui disponiamo - spiega Cristiano Redaellli, vice presidente di Confindustria Digitale - confermano che lo sviluppo dell'economia digitale può generare una crescita diretta del Pil italiano del 2% annuo. Che in 15 anni il digitale qui da noi ha generato 700mila posti di lavoro. Al di là dei numeri ci sembra che il tempo sia scaduto».

E non ci sono segnali che lasciano ben sperare. Anzi. Il pacchetto di misure contenute nel decreto sviluppo bis aspetta per essere attuato numerosi decreti attuativi. L'Agenzia dell'Italia digitale, l'organo chiamato a coordinare l'attuazione dell'agenda, ha subito uno stop nei giorni scorsi con il ritiro dello statuto da parte del Governo. Anche le figura di un viceministro digitale, punto di riferimento per le politiche di innovazione, è oggetto di discussione in questi giorni. Langue persino il dibattito su questi temi. Su Google Trend, il sito che misura quanto spesso una parola sia oggetto di ricerche, le parole "agenda digitale" dall'ottobre del 2012 sono in caduta libera.

Ma come scritto più volte su Nòva24 è la governance del sistema digitale italiano a essere tutt'altro che risolta. Chi è chiamato a sbrogliare la matassa, al netto di parole di buone intenzioni, non sempra considerare il digitale in cima all'agenda. O peggio, all'interno di una agenda. «Sono due anni che mi occupo di relazioni istituzionali per Google Italia – racconta Diego Ciulli – e la domanda più gettonata che gli esponenti della politica mi rivolgono è come far nascere una Google in Italia. Ogni volta provo a spiegare loro che è come chiedere ai californiani della Silicon Valley di inventare la pizza. Nessuno lo chiederebbe, e infatti hanno inventato Pizza Hut». «Lo stesso dobbiamo fare noi – precisa – usare Google, le tecnologie e internet per abilitare ciò che sappiamo fare meglio». Basta, crederci. Controindicazioni non ce ne sono.

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